Un tempo a Firenze viveva
un Granduca che quand’era molto giovane, con un bluff, riuscì da semplice
cittadino a conquistare il potere assoluto mettendosi in tasca dei marpioni del
calibro del Gucciardini e Filippo Strozzi. Anzi, di lì a poco Gucciardini dovette
ritirarsi e scrivere le sue Storie fiorentine e lo Strozzi finì i suoi giorni
suppliziato per ordine dello stesso giovanotto che egli aveva nominato Duca. Ma
andiamo con ordine.
Nel 1537, proprio mentre a
Firenze nessun ostacolo sembrava frapporsi al ristabilimento del potere
repubblicano dopo l’epopea medicea (quella del ramo principale), sembrando
essere quella l’unica e la più naturale soluzione possibile, ai quattro
principali senatori, vale a dire Gucciardini, Strozzi, Valori e Acciaiuoli, si
presentò un giovane di belle speranze e la parlantina sciolta, il quale, con un
artificioso contegno di umiltà, si offrì di farsi nominare Duca lasciando però
tutto il potere nelle mani del Consiglio. Lo Strozzi conosceva bene quel
pischello di 17 anni e mezzo, figlio di quella dama, nipote di Lorenzo il
Magnifico e vedova di Giovanni dalle bande nere, che poco tempo prima gli aveva
chiesto e ricevuto aiuto per risolvere i suoi molti debiti.
I quattro senatori, mossi
dalla loro ambizione e resi creduli che il giovanotto fosse una nullità che li
avrebbe lasciati liberi di governare a loro comodo, lo nominarono capo del
governo, facendogli mettere per iscritto che tutto il potere sarebbe rimasto
nelle mani del Consiglio, ovvero nella loro disponibilità. Il Gucciardini immaginò
pure di dargli in moglie, al giovanotto nominato Duca, la propria figliola
Lisabetta, nella speranza che lo sposo avrebbe lasciato tutto il potere nelle
mani del suocero. Dovette, assieme agli altri senatori, ricredersi sul conto
del grande dissimulatore che appena fu nominato capo del governo assunse
autorità assoluta e si fece conoscere per ciò che effettivamente era, ossia un
tiranno che intendeva governare con la paura (*).
Diversi anni dopo questi
fatti, lo stesso Duca si produsse in una delle sue macchinazioni più riuscite.
Come duca egli era pur sempre un vassallo dell’imperatore, perciò ambiva a
essere nominato granduca, titolo che gli avrebbe garantita la corona e perciò
la completa autonomia. La nuova dignità poteva essergli conferita da due sole
persone, ossia dall’imperatore, ma questo era fuori questione per il momento,
oppure dal papa. Bisognava dunque ingraziarselo il monarca di Roma.
Essendo asceso al soglio
pontificio con il nome di Pio V (Michele Ghislieri) l’ex inquisitore e spietato
persecutore di “heretici”, il duca di Firenze aveva ben chiaro come comportarsi
di conseguenza se voleva raggiungere il suo scopo.
*
Il Duca aveva quale
funzionario della sua corte un certo Andrea Carnesecchi, di antico casato, i
cui avi avevano coperto magistrature cittadine e accumulato notevoli fortune
con l'esercizio della mercatura, diventando poi di simpatie medicee. Andrea
aveva per figlio Pietro, il quale aveva studiato a Roma e aveva poi trovato
posto nella curia di Clemente VII, il secondo dei due papi di casa Medici.
Sennonché con il sacco di Roma del 1527 fu costretto a rientrare a Firenze, ma
ritornò a Roma con lo stesso Giulio de Medici due anni dopo con sempre più
prestigiosi titoli e incarichi di Curia e concessioni di benefici ecclesiastici
(**).
Nel
settembre del 1533 era succeduto a Giacomo Salviati nella carica di segretario
pontificio e circolava il detto che a governare la Chiesa fosse il Carnesecchi
Pietro anziché l’acciaccato Clemente VII, il quale agli inizi del 1534 progettava
d'assegnare al suo pupillo l’ambitissimo vescovato di Treviso. Ma il papa morì
e fu certamente questo il momento in cui il destino del dignitario
ecclesiastico mutò in conseguenza del rovesciamento di indirizzi politici
avvenuto in curia con l'elezione di Paolo III Farnese.
Lasciata
Roma e la curia, dopo un rapido passaggio per Napoli, ritorna a Firenze per
attendere ai suoi studi, condurre una vita di tranquilla meditazione pur avendo
frequenti rapporti con la corte del duca di cui sopra. Nel 1538 rivide ai Bagni
di Lucca Vittoria Colonna, che già aveva conosciuta quattro anni prima e con la
quale ebbe in tale circostanza “occasione di pigliar ancor più stretta
famigliarità”. L’anno dopo riparte per Napoli allo scopo, disse, d’incontrare
una sua vecchia conoscenza, ossia Giulia Gonzaga alla quale lo legò una relazione
di fiducia senza riserve. Ma è anche l’occasione per un altro incontro, assai
“pericoloso”, ovverosia con Valdes, cui si legò da un’amicizia spirituale e
l’adesione alle sue dottrine. Insomma aderì al protestantesimo e divenne poi uno
dei più noti esponenti italiani di esso.
Nel
1541 ripartì da Napoli e dopo breve sosta a Roma proseguì per Firenze laddove
ebbe contatti con il segretario del Duca, anch’egli simpatizzante per le nuove
idee religiose. Dopo varie peripezie giunse in fine a Venezia dove impiantò
dimora in quella città dove l’inquisizione era meno occhiuta che altrove. Anche
qui grande giro di contatti e relazioni con personalità di buon spessore
eretico: Lattanzio Ragnone, Pier Paolo Vergerio, Baldassarre Altieri, Camillo
Orsini, Pietrantonio da Capua, Guido Giannetti da Fano, Francesco Porto, Donato
Rullo, Germano Minadois, molto probabilmente anche Antonio Brucioli.
Agli
inizi del 1546 un breve papale intimò al Carnesecchi di presentarsi agli uffici
romani dell'Inquisizione, intimazione alla quale egli aderì. Prendeva così
avvio il primo dei tre processi da lui subiti. Questo primo processo non ebbe
esito infausto, ma la situazione per il Carnesecchi si faceva viepiù pericolosa.
Dopo aver trascorso alcuni mesi tra Roma e Firenze se ne partì per la Francia
dove trovò rifugio e prestigioso ufficio presso Caterina de Medici, moglie di
Enrico II, la quale, sebbene portasse lo stesso nome e ne fosse lontana
parente, odiava il Duca di Firenze, cordialmente ricambiata.
Fu
in tale veste, e tramite l’amicizia stabilita con il protestante François
Olivier, gran cancelliere di Caterina, che il Carnesecchi potè fornire al Duca
di Firenze, direttamente o tramite il residente fiorentino in Francia, preziose
informazioni politiche. Nell'estate del 1552, per ragioni che rimangono ancora
oscure, il Nostro lasciò la corte francese e venne a stabilirsi in Italia,
stabilendosi a Padova e riprendendo nei suoi frequenti viaggi a Venezia gli
antichi contatti con i suoi amici.
È
nel 1555 che contro il Carnesecchi s’aprì un nuovo procedimento d’accusa a Roma
con l’accusa d’eresia. Egli non risposte all’ingiunzione di presentarsi e fu
dichiarato contumace. Tuttavia il procedimento fece il suo corso e nel 1559
l’eretico fu condannato alla pena capitale. Intanto egli si diceva sicuro di
poter vivere a Venezia senza pericolo, “a dispetto del papa”, come scriveva
alla Gonzaga.
Nell'agosto
del 1559 la morte di Paolo IV aprì al Carnesecchi la concreta possibilità della
revisione del processo. Lasciò subito Venezia, diretto a Firenze per
sollecitare l'intervento del Duca. Da lì seguì attentamente lo svolgimento del
conclave, nella speranza dell'elezione di un suo amico (il Morone) al soglio.
Nel gennaio del 1560, appresa l'elezione di Pio IV (Giovanni Medici, per nulla
parente della casata fiorentina) e ottenuta, per intervento del Duca di Firenze,
la sospensione della sentenza, il Carnesecchi partì per Roma. La sua speranza
d'una rapida assoluzione si scontrò presto con la realtà delle lentezze
procedurali e soprattutto con i forti contrasti che il suo caso suscitava fra i
membri del S. Uffizio.
Ad
ogni modo l’anno successivo, anche per le pressioni esercitate in suo favore
dal Duca di Firenze, il Carnesecchi uscì dal processo assolto, nonostante
l’opposizione dell’inquisitore Michele Ghislieri. Dopo vari soggiorni in città
italiane ritornò a Venezia, ed infine nel 1565 ripartì per Firenze. Proprio in
quell’anno fu eletto papa Michele Ghislieri, col nome di Pio V, ossia colui che
si dimostrò essere il più intransigente oppositore alla precedente assoluzione
del Carnesecchi.
In
quello stesso anno avvenne anche la morte dell’amica del Carnesecchi, la
Gonzaga, e il sequestro delle carte della nobildonna mise a disposizione degli
inquisitori un ampio materiale in base al quale condurre l'indagine su tutta la
trama del movimento valdesiano. In questa prospettiva si colloca l'immediata
ripresa del processo al Carnesecchi, secondo alcune biografie, e fu data
comunicazione al Duca di Firenze, il quale come detto in apertura aspirava alla
dignità di granduca, che i futuri rapporti con la curia romana sarebbero dipesi
dalla volontà del Duca di consegnare senza indugi il Carnesecchi, il quale fu
consegnato alle autorità di Roma.
Secondo
altre fonti papa Pio V non gradiva che Carnesecchi consigliasse il Duca di
Firenze di avvalersi della sua influenza presso l’imperatore, divenuto suo
cognato, per indurlo a indire un vero concilio ecumenico nel centro della
Germania. Caterina de Medici scrisse al Duca di Firenze raccomandandogli di
proteggere, come aveva fatto lei a suo tempo in Francia, il Carnesecchi dai
tentativi del papa di trarlo a sé per arrostirlo. Comunque stia la verità, e
quest’ultima mi sembra la versione più verosimile, il poveretto fu consegnato
dal Duca, come detto, agli inquisitori pontifici.
Carnesecchi,
giunto a Roma, fu sottoposto a processo e torturato più volte finché ammise di
essere un eretico. Tuttavia la confessione fu considerata insufficiente, e insoddisfacenti
le risposte date in altri interrogatori svoltisi durante le pause di un
violento attacco di febbre malarica.
Il
16 agosto 1567 vi fu la lettura della sentenza, la cui pubblicazione avvenne
solo il 21 settembre nella chiesa della Minerva, alla presenza di tutti i
cardinali presenti a Roma. Il Carnesecchi fu condannato alla degradazione, alla
privazione dei benefici e al deferimento al braccio secolare, ossia alla
decapitazione e al rogo. Per suggerimento del governatore di Roma, fu designata
come luogo dell'esecuzione la piazza adiacente al ponte S. Angelo anziché Campo
dei Fiori. Il primo ottobre la decapitazione avvenne senza indugi; più lenta
fu, invece, l'azione del rogo a causa della pioggia.
Il
Duca di Firenze, che si chiamava Cosimo I, ottenne dal papa la dignità di
Granduca.
(*) L’assunzione del potere
da parte di Cosimo I fu nelle sue motivazioni molto più complessa di com’è
stata qui, per comodità, accennata. Essa dipese anzitutto dalle decisioni di
Carlo V, vero padrone della situazione europea (ad esclusione della Francia di
Francesco I e dell’Inghilterra). Il conte Cifuentes, inviato a Firenze dall’imperatore
con precise istruzioni scritte (ora negli archivi spagnoli di Simancas), si
rivelò alquanto inadatto al suo compito – dato il suo carattere “imperioso e
arcigno” – e in parte disattese le istruzioni di Carlo V. Vero è che all’imperatore
convenne, date le circostanze, di confermare Cosimo nel suo potere di Firenze.
Vedi: Giorgio Spini, Cosimo I e l’indipendenza
del principato mediceo, Vallecchi, in part. pp. 78 – 84. In rete, alla voce della Treccani.
(**) Al
titolo di monsignore s'aggiunsero prima le funzioni di cameriere segreto e poi
la carica di protonotario. Nel 1533 a Pietro Carnesecchi è conferito il
canonicato della cattedrale fiorentina con la facoltà di portare il nome dei
Medici e l’anno dopo è nominato governatore di Tivoli: cariche e titoli cui
s'accompagnano benefici in Italia (abbazia di S. Pietro in Eboli; abbazia di S.
Maria di Gavello, nella diocesi di Adria) e pensioni e prebende in Francia e in
Spagna. Insomma, fin qui, un uomo baciato dal destino.
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