martedì 23 luglio 2013

Il punto critico


In questi giorni ho scritto di cose che riguardano il passato. Del presente, almeno per come viene descritto sulle prime pagine dei giornali, vien voglia di tacere. In uno stato di crisi che s’inchioda sempre di più, s’insiste sul congresso del Pd e le primarie, si polemizza sulle dichiarazioni fluviali del sindaco di Firenze o si dà rilievo agli aforismi dell’ex segretario alla festa dell’anguria.

Ogni mese è necessario trovare i denari per pagare 19 milioni di posizioni pensionistiche, almeno 4 o 5 milioni di stipendi statali e parastatali, centinaia di migliaia di cassaintegrati, innumerevoli consulenze d’oro, alcuni miliardi di interessi sul debito, decine di miliardi per la spesa sanitaria, farmaceutica e assistenziale, alcuni miliardi per le spese militari, e senza dire della corruzione [*]. Coloro che producono ricchezza – nelle fabbriche, nei campi, in mare – sono sempre di meno, e si tratta di quelli che ci mantengono tutti.



Le aziende chiudono, per cessata attività o per fallimento. Chi fallisce spesso porta dietro con sé nel baratro dell’insolvenza anche chi gli ha fatto credito. Le banche, che di crediti inesigibili hanno strapieni i bilanci, non hanno ancora dichiarato fallimento perché sostenute dalla Bce e dal fatto che non c’è – per il momento – la corsa agli sportelli da parte dei clienti.

Quanto potrà durare questa situazione? Non in eterno. Nessuno dei provvedimenti evanescenti e casuali all’esame del governo attuale, così come dei precedenti, ha o potrebbe avere per tema soluzioni radicali dei problemi. Chi propone la ristrutturazione del debito italiano, come avvenuto in Grecia, non sa di cosa parla, oppure – com’è probabile – punta a far precipitare la situazione, in tal modo favorendo certi disegni antieuro.

E tuttavia la crisi attuale trascende anche lo specifico, poiché essa riguarda la nuova fase imperialistica e la sua inedita nervatura tecnologica. Anche volendo adoperarsi per delle riforme, esse non potrebbero essere incisive perché interverrebbero nel fazzoletto nazionale o al massimo in quello europeo, e su aspetti magari importanti ma che non modificano i processi nel loro insieme. In altri termini, tali riforme non potrebbero modificare strutturalmente l’essenza dell’imperialismo così come si prospetta a livello mondiale e nei molteplici nessi di dipendenza e di sfruttamento.

Come scrissi già all’esordio di questo blog, ossia nel 2010, la situazione è tale che è perfettamente inutile affrontare singolarmente i problemi, oggi siamo giunti precisamente al punto in cui non è più possibile risolverne nessuno senza risolverli tutti. Per farlo è necessario non solo un cambiamento politico (il capitalismo ha una buona riserva di forme politiche intercambiabili, come il XX secolo insegna), ma ci vuole una rivoluzione sociale radicale e non solo – ripeto – a dimensione locale.

Per fare il caso italiano, il limite vero del movimento grillista è appunto quello di cercare il cambiamento dall’interno del sistema, che sarebbe poi – a leggere i loro spropositi – un riadattamento “sostenibile” del sistema economico vigente. Come se Martin Lutero avesse portato le sue idee di riforma alla curia di Roma, o i rivoluzionari dell’Ottantanove si fossero accontentati di sedere negli Stati generali e Lenin avesse chiesto un posto alla Duma e discusso con Trozkij – scontrini alla mano – di quanto è cara la vita a Pietroburgo. Se ne accorgono ora di come il sistema sia abile ad insabbiare le loro ambigue velleità riformistiche.

Rendiamoci conto, diversamente da come invece tende ad asseverare l’indotto ideologico – culturale e psicologico – piccolo borghese, che non si tratta più di problemi nazionali e di mere questioni di scelta e di comportamento. La questione vera che ci sta di fronte e che molti fingono di non vedere, è di aver rinunciato all’idea e alla pratica di superamento delle contraddizioni organiche del capitalismo, di non voler individuare il punto di rottura critico e politico fondamentale, il quale non può che essere il punto di rottura con gli interessi della classe dominante. Questa e solo questa può e dev’essere la strada per un nuovo internazionalismo e un reale ripensamento e riprogettazione del cambiamento, ma finora ha vinto solo la rassegnazione e su tali temi siamo all’eclissi dell’intelligenza critica di quella che un tempo fu la sinistra.



[*] I reati principali ipotizzati per la faccenda del Mose di Venezia, sono: associazione per delinquere, concussione, riciclaggio, abuso d'ufficio, turbativa d'asta, illecito finanziamento a partiti e movimenti politici, emissione e utilizzo di false fatture e creazione di fondi neri. 14 arresti e 100 indagati, per ora. Poi c’è lo scandalo della terza banca italiana, con altri miliardi che alla fine cacceremo di tasca nostra. Quindi, l’ammucchiata Ligresti, con l’ex presidente di Fonsai, Jonella Ligresti, che si è presentata questa mattina in tribunale in tunica blu mare, faldone sottobraccio dello stesso colore, sandali infradito ai piedi. Del resto lei quando è stata arrestata si trovava in vacanza in Sardegna! Ma tutto questo, come si suole dire, è solo colore.



4 commenti:

  1. Forse è un bene dedichi i tuoi post al "passato", giacché quelli riservati al presente mi (e forse "ci") lasciano senza parole, nel senso che le hai dette tutte tu :-)

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    1. nel mio piccolo ... comunque ritornerò al passato. ciao caro

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  2. Qui al Sud, dove è lo Stato in senso lato il principale datore di lavoro, se non si trovassero più i fondi per alimentare il clientelismo scoppierebbe davvero il casino. Mi spiace un po' tifare per il tanto peggio tanto meglio, ma forse è l'unico modo per demolire quel blocco culturale che non ci consente di avere il coraggio di immaginare un mondo migliore.

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