mercoledì 3 luglio 2013

Il dominio pieno della legge del valore


Dal 2010, ossia da quando ho aperto questo scrittoio, vado dicendo che il capitalismo è fallito, anche se non è ancora morto. Soggiungendo che ciò avviene, paradossalmente, nel momento del suo massimo trionfo, ossia nel momento nel quale il modo di produzione capitalistico pienamente sviluppato domina in lungo e in largo il pianeta, quando anche i sistemi che si dicevano anticapitalisti sono scomparsi o si sono arresi. In altri termini, nel momento storico in cui tutte le forze produttive sono state profondamente rivoluzionate e poste sotto il dominio pieno della legge del valore.



Di solito, quando si fanno simili asserzioni, è poi doveroso offrirne concettosa e articolata dimostrazione con esempi concreti. Per contro, non mi pare il caso di dovermi esibire in un simile esercizio, tanto più che la crisi storica nella quale versa il modo di produzione capitalistico è sotto gli occhi di tutti e non passa giorno che dai suoi curatori fallimentari non si levino accorati appelli di revocatoria nei riguardi della bancocrazia e dei giochi speculativi, additati quali responsabili principali di questa crisi.

E ove non bastasse l’evidenza palmare, si potrebbe invocare, ahimè invano, la critica dell’economia politica marxiana che, ben prima di ogni altra teoria e in forza di una stringente analisi, dimostra come le cause della crisi risiedono già nella contraddizione fondamentale che sta alla base del modo di produzione capitalistico, ossia nell’opposizione interna tra valore e valore d’uso della merce, e come con la crescita dell’accumulazione tale contraddizione ponga le premesse per la sua negazione, in quanto lo sviluppo delle forze produttive entra in contrasto con la forma e la natura che esse assumono nel modo di produzione capitalistico, cioè con i rapporti di produzione esistenti.

Viceversa, noi vediamo come l’economia politica abbia un carattere di classe, come essa esprima il punto di vista e gli interessi della borghesia e delle sue fazioni, e come sia perciò destinata a prendere fischi per fiaschi, salvo addurre scuse ex post per i suoi continui e clamorosi insuccessi.

Ciò avviene, in dettaglio e dal punto di vista tecnico, per molti motivi, ma principalmente perché gli economisti borghesi cercano di spiegare le cause della crisi fondamentalmente all’interno del movimento circolatorio del capitale, per esempio nella mutazione dei prezzi, nell’oscillazione delle monete o nell’aumento dei salari reali. Ma tutti questi fenomeni non scaturiscono necessariamente dalla natura del capitale in sé, non gli sono cioè propri in quanto capitale (*).

Tuttavia, di là di queste considerazioni sulla crisi del capitalismo, c’è da osservare che la fine dei sistemi cosiddetti comunisti, ha lasciato indubbiamente un vuoto. Come sistemi sociali essi sono stati criticati soprattutto dal lato politico, mentre più in ombra è rimasta la riflessione sul lato economico della loro natura e funzione storica. La fase “comunista” è durata fin troppo a lungo, ossia il tempo necessario per passare da condizioni prevalentemente semi-feudali allo sviluppo di un sistema industriale vero e proprio, che poteva però progredire solo nei termini imposti dal piano, ossia in aderenza e obbedienza non già alle esigenze di sviluppo della società reale, bensì secondo le esigenze dettate dall’ideologia e dal comando, e nella logica di uno scontro geopolitico imponente.

Un genere di sistema economico basato sull’industria pesante che dà il meglio di sé proprio in fase di costituzione del processo industriale e di sviluppo delle infrastrutture, come anche in una fase di economia di guerra (1941-’45), ma che nel lungo periodo denuncia le contraddizioni e l’impasse dovuti alla burocratizzazione dei processi economici, la sottomissione della società a una classe autonoma di funzionari di partito che ha come scopo precipuo il rafforzamento del proprio potere totalitario e la salvaguardia di privilegi.

Ciò ha dato luogo a forme generalizzate di sottosviluppo economico, e le questioni tecniche di organizzazione, sottoposte a vincolo ideologico usato come fine a se stesso, hanno impedito un effettivo e adeguato progresso sociale nei settori decisivi.

Marx era stato molto chiaro a tale proposito: così come la struttura economica della società capitalistica è derivata dalla struttura economica della società feudale, dunque la dissoluzione di questa ha liberato gli elementi di quella, allo stesso modo solo il pieno sviluppo del capitalismo, quindi sulle conquiste dell’era capitalistica, crea le condizioni per il suo superamento.




(*) È vero che troppo spesso si dimentica che l’enorme massa di capitali che mantiene in piedi il gioco del debito pubblico e delle altre obbligazioni, così come le merci griffate che ostentiamo, è sangue di bambini e adulti che vengono sfruttati per il prezzo d’elemosina in paesi lontani. E del resto lo stesso debito pubblico delle nazioni è posto sotto il giogo dello strozzinaggio, laddove il perno del fiscalismo è costituito dalle imposte sui mezzi di sussistenza (quindi dal rincaro di questi), e porta perciò in se stesso il germe della progressione automatica. Dunque, per dirla con Marx, il sovraccarico d’imposte non è un incidente, ma anzi è il principio. E tuttavia questi sono solo gli effetti di alcune dinamiche del sistema capitalistico, ma le cause effettive della sua crisi storica vanno cercate nell’ambito della produzione di valore.

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