Dal 2010, ossia da quando ho aperto questo scrittoio,
vado dicendo che il capitalismo è fallito, anche se non è ancora morto.
Soggiungendo che ciò avviene, paradossalmente, nel momento del suo massimo
trionfo, ossia nel momento nel quale il modo di produzione
capitalistico pienamente sviluppato domina in lungo e in largo il pianeta,
quando anche i sistemi che si dicevano anticapitalisti sono scomparsi o si sono
arresi. In altri termini, nel momento storico in cui tutte le forze produttive
sono state profondamente rivoluzionate e poste sotto il dominio pieno della
legge del valore.
Di solito, quando si fanno simili asserzioni, è poi
doveroso offrirne concettosa e articolata dimostrazione con esempi concreti. Per
contro, non mi pare il caso di dovermi esibire in un simile esercizio, tanto
più che la crisi storica nella quale versa il modo di produzione capitalistico
è sotto gli occhi di tutti e non passa giorno che dai suoi curatori
fallimentari non si levino accorati appelli di revocatoria nei riguardi della
bancocrazia e dei giochi speculativi, additati quali responsabili principali di
questa crisi.
E ove non bastasse l’evidenza palmare, si potrebbe invocare,
ahimè invano, la critica dell’economia
politica marxiana che, ben prima di ogni altra teoria e in forza di una
stringente analisi, dimostra come le cause della crisi risiedono già nella
contraddizione fondamentale che sta alla base del modo di produzione
capitalistico, ossia nell’opposizione interna tra valore e valore d’uso della
merce, e come con la crescita dell’accumulazione tale contraddizione ponga le
premesse per la sua negazione, in quanto lo sviluppo delle forze produttive
entra in contrasto con la forma e la natura che esse assumono nel modo di
produzione capitalistico, cioè con i rapporti di produzione esistenti.
Viceversa, noi vediamo come l’economia politica abbia
un carattere di classe, come essa esprima il
punto di vista e gli interessi della borghesia e delle sue fazioni, e come
sia perciò destinata a prendere
fischi per fiaschi, salvo addurre scuse ex post per i suoi continui e clamorosi
insuccessi.
Ciò avviene, in dettaglio e dal punto di vista tecnico,
per molti motivi, ma principalmente perché gli economisti borghesi cercano di
spiegare le cause della crisi fondamentalmente all’interno del movimento
circolatorio del capitale, per esempio nella mutazione dei prezzi,
nell’oscillazione delle monete o nell’aumento dei salari reali. Ma tutti questi
fenomeni non scaturiscono necessariamente dalla natura del capitale in sé, non gli sono cioè propri in quanto capitale (*).
Tuttavia, di là di queste considerazioni sulla crisi del
capitalismo, c’è da osservare che la fine dei sistemi cosiddetti comunisti, ha
lasciato indubbiamente un vuoto. Come sistemi sociali essi sono stati criticati
soprattutto dal lato politico, mentre più in ombra è rimasta la riflessione sul
lato economico della loro natura e funzione storica. La fase “comunista” è
durata fin troppo a lungo, ossia il tempo necessario per passare da condizioni
prevalentemente semi-feudali allo sviluppo di un sistema industriale vero e
proprio, che poteva però progredire solo nei termini imposti dal piano, ossia
in aderenza e obbedienza non già alle esigenze di sviluppo della società reale,
bensì secondo le esigenze dettate dall’ideologia e dal comando, e nella logica di
uno scontro geopolitico imponente.
Un genere di sistema economico basato sull’industria
pesante che dà il meglio di sé proprio in fase di costituzione del processo
industriale e di sviluppo delle infrastrutture, come anche in una fase di
economia di guerra (1941-’45), ma che nel lungo periodo denuncia le
contraddizioni e l’impasse dovuti alla burocratizzazione dei processi
economici, la sottomissione della società a una classe autonoma di funzionari
di partito che ha come scopo precipuo il rafforzamento del proprio potere
totalitario e la salvaguardia di privilegi.
Ciò ha dato luogo a forme generalizzate di sottosviluppo
economico, e le questioni tecniche di organizzazione, sottoposte a vincolo
ideologico usato come fine a se stesso, hanno impedito un effettivo e adeguato progresso
sociale nei settori decisivi.
Marx era stato molto chiaro a tale proposito: così
come la struttura economica della società capitalistica è derivata dalla
struttura economica della società feudale, dunque la dissoluzione di questa ha liberato
gli elementi di quella, allo stesso modo solo il pieno sviluppo del capitalismo,
quindi sulle conquiste
dell’era capitalistica, crea le condizioni per il suo superamento.
(*) È
vero che troppo spesso si dimentica che l’enorme massa di capitali che mantiene
in piedi il gioco del debito pubblico e delle altre obbligazioni, così come le
merci griffate che ostentiamo, è sangue di bambini e adulti che vengono
sfruttati per il prezzo d’elemosina in paesi lontani. E del resto lo stesso
debito pubblico delle nazioni è posto sotto il giogo dello strozzinaggio,
laddove il perno del fiscalismo è costituito dalle imposte sui mezzi di
sussistenza (quindi dal rincaro di questi), e porta perciò in se stesso il
germe della progressione automatica. Dunque, per dirla con Marx, il
sovraccarico d’imposte non è un incidente, ma anzi è il principio. E tuttavia questi
sono solo gli effetti di alcune dinamiche del sistema capitalistico, ma le
cause effettive della sua crisi storica vanno cercate nell’ambito della
produzione di valore.
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