“ […] la concezione materialistica della storia e la rivelazione del segreto della produzione capitalistica mediante il plusvalore, le dobbiamo a Marx. Con queste due grandi scoperte il socialismo è diventato una scienza” (F. Engels, Anti-Dühring, Introduzione).
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Le dottrine dell'economia volgare, ossia quelle teorie borghesi che da una certa epoca in poi non hanno come compito di analizzare il modo di produzione esistente, sono tutte uguali nella sostanza, salvo appunto la rappresentazione di ciò che esse spacciano per realtà. C’è quella che punta sull'identità d’interessi tra capitale e lavoro, sull'armonia e sul benessere universale come conseguenza della libera concorrenza, l’utopia dell’equilibrio perfetto. È entrata in crisi un secolo fa, ma nelle fasi alte del ciclo economico essa viene rispolverata perché fa la sua figura nella chiacchiera accademica. Oggi è smentita dai fatti e in modo sempre più effervescente dagli effetti dalla crisi che si compie sotto i nostri occhi. Poi ci sono le teorie di pronto soccorso, laddove è spiegato il “perché il sistema capitalistico genera, inevitabilmente, una grande crisi”.
C’è voluto del tempo, i fatti si sono dovuti dimostrare arcigni e testardi quanto mai, ma alla fine lorsignori si sono dovuti arrendere: “La causa causante della crisi attuale è stata un cambiamento strutturale dell'economia reale: il declino dei redditi nell'industria si deve a ciò che di solito è un bene (l'aumento della produttività) e alla globalizzazione che ha prodotto una forte moderazione salariale. In altri termini: il settore industriale è vittima del suo proprio successo”.
A dire il vero non si tratta, se si gratta la vernice, di una teoria molto nuova (vds. teorie “dei cicli economici”, della “sproporzione” e altre consanguinee). Per declino dei “redditi” (l’aleatorietà terminologica regna sovrana presso gli economisti borghesi) si deve intendere innanzitutto “il declino” dei profitti, l’insufficiente valorizzazione del capitale. Naturalmente questo fenomeno – del quale Marx ha scoperto la legge che lo determina – essi tentano di spiegarselo con le più fantastiche invenzioni. Ne scrissi altre volte, non intendo ritornare sull’argomento. Quello che m’interessa porre in evidenza è che queste teorie della crisi non mettono mai in discussione il modo stesso di produzione capitalistico e le sue reali contraddizioni, e in ciò tali teorie sono sostanzialmente uguali e compatibili (*).
Non hanno nulla di scientifico, sono ideologia e apologia pura, spesso scolorano nella metafisica. Se poi i premi Nobel che le incarnano si servono della matematica, cioè di una scienza esatta, essi pretendono che anche i risultati da essi ottenuti siano accolti per esatti (succede anche in altre discipline). Tali teorie economiche hanno però in definitiva uno scopo: confermare l’assunto che questo sistema economico – nonostante le sue contraddizioni – sia il migliore possibile e non sia destinato a lasciare la scena della storia, semmai si tratta di dargli gli opportuni “correttivi”.
Questa idea circa il capitalismo è stata corroborata dal fatto che nei momenti più favorevoli dell’accumulazione, nelle fasi di grande espansione, può succedere – come è avvenuto nei paesi occidentali per alcuni decenni – che i salariati possano ampliare la cerchia dei loro godimenti, arricchire i consumi e costituire piccoli fondi di riserva di denaro. Ma – osservava Marx – “come il vestiario, l’alimentazione, il trattamento migliore e un maggiore peculio non aboliscono il rapporto di dipendenza e lo sfruttamento dello schiavo, così non aboliscono quello del salariato”.
Allo stesso modo le magnifiche sorti e progressive del capitalismo non cessano di produrre le cause delle sue crisi. Di fronte a questa evidenza, i riscopritori di Marx e certi ultra-sinistri pensano di avere buon gioco sostenendo che Marx stesso non sia stato in grado di offrire soddisfacenti motivazioni storico-economiche del superamento dell’attuale modo di produzione, ma abbia semplicemente esibito tale trapasso solo da un punto di vista dialettico, con degli arabeschi hegeliani, ossia come risultante della negazione della negazione. E ti sparano subito una citazione marxiana:
Il modo di appropriazione capitalistico che nasce dal modo di produzione capitalistico, e quindi la proprietà privata capitalistica, sono la prima negazione della proprietà privata individuale, fondata sul lavoro personale. Ma la produzione capitalistica genera essa stessa, con l’ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione. È la negazione della negazione. E questa non ristabilisce la proprietà privata, ma invece la proprietà individuale fondata sulla conquista dell’era capitalistica, sulla cooperazione e sul possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso (Il Capitale, I, 24-7).
Solo che prima di arrivare a questa conclusione, Marx aveva dimostrato per almeno cinquanta pagine, quelle sulla cosiddetta accumulazione originaria del capitale, il quadro storico economico generale della sua indagine. Ne riporto un esempio un po’ lungo, ne vale la pena:
A che cosa si riduce l’accumulazione originaria del capitale, cioè la sua genesi storica? In quanto non è trasformazione immediata di schiavi e di servi della gleba in operai salariati, cioè semplice cambiamento di forma, l’accumulazione originaria del capitale significa soltanto l’espropriazione dei produttori immediati, cioè la dissoluzione della proprietà privata fondata sul lavoro personale.
La proprietà privata, come antitesi della proprietà sociale, collettiva, esiste soltanto là dove i mezzi di lavoro e le condizioni esterne del lavoro appartengono a privati. Ma, a seconda che questi privati sono i lavoratori o i non lavoratori, anche la proprietà privata assume carattere differente. Le infinite sfumature che la proprietà privata presenta a prima vista sono soltanto un riflesso degli stati intermedi che stanno fra questi due estremi.
[…] La proprietà privata acquistata col proprio lavoro, fondata per così dire sulla unione intrinseca della singola e autonoma individualità lavoratrice e delle sue condizioni di lavoro, viene soppiantata dalla proprietà privata capitalistica che è fondata sullo sfruttamento di lavoro che è sì lavoro altrui, ma, formalmente, è libero.
Appena questo processo di trasformazione ha decomposto a sufficienza l’antica società in profondità e in estensione, appena i lavoratori sono trasformati in proletari e le loro condizioni di lavoro in capitale, appena il modo di produzione capitalistico si regge su basi proprie, assumono una nuova forma la ulteriore socializzazione del lavoro e l’ulteriore trasformazione della terra e degli altri mezzi di produzione in mezzi di produzione sfruttati socialmente, cioè in mezzi di produzione collettivi, e quindi assume una forma nuova anche l’ulteriore espropriazione dei proprietari privati. Ora, quello che deve essere espropriato non è più il lavoratore indipendente che lavora per sé, ma il capitalista che sfrutta molti operai.
Questa espropriazione si compie attraverso il gioco delle leggi immanenti della stessa produzione capitalistica, attraverso la centralizzazione dei capitali. Ogni capitalista ne ammazza molti altri. Di pari passo con questa centralizzazione ossia con l’espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi, si sviluppano su scala sempre crescente la forma cooperativa del processo di lavoro, la consapevole applicazione tecnica della scienza, lo sfruttamento metodico della terra, la trasformazione dei mezzi di lavoro in mezzi di lavoro utilizzabili solo collettivamente, la economia di tutti i mezzi di produzione mediante il loro uso come mezzi di produzione del lavoro sociale, combinato, mentre tutti i popoli vengono via via intricati nella rete del mercato mondiale e così si sviluppa in misura sempre crescente il carattere internazionale del regime capitalistico. Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la massa della miseria, della pressione, dell’asservimento, della degenerazione, dello sfruttamento, ma cresce anche la ribellione della classe operaia che sempre più s’ingrossa ed è disciplinata, unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico. Il monopolio del capitale diventa un vincolo del modo di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati (Il Capitale, I, ibidem).
Osserva a tale riguardo Engels:
Marx non pensa dunque, caratterizzando questo processo come negazione della negazione, di dimostrare per questa via che esso è un processo storicamente necessario. Al contrario: dopo aver dimostrato storicamente che il processo, in effetti, in parte si è compiuto e in parte deve ancora compiersi, lo caratterizza inoltre come un processo che si compie secondo una legge dialettica determinata.
Il principio dialettico della negazione della negazione, peraltro, non è cosa astrusa e può essere spiegato molto semplicemente, sia con un esempio pratico legato a un processo naturale dei più comuni, organico o inorganico, sia dal punto di vista matematico, storico, filosofico, ecc.. Ma non voglio insistere oltre, il post è già troppo lungo.
(*) Il marginalista Bohm-Bawerk a suo tempo attaccò la teoria della trasformazione dei valori in prezzi di Marx, sostenendo che il III libro del Capitale si riduce a un tentativo di autodifesa, una volta che Marx stesso si rese conto dell’incapacità della legge del valore, esposta nel I libro, di spiegare i prezzi (La conclusione del sistema marxiano, in Economia borghese e economia marxista, La Nuova Italia 1971, pag.28).
Questo asino, al pari di molti altri della sua specie, oltre a non capire cosa effettivamente Marx avesse scritto ne Il Capitale, non sapeva che l’Autore aveva pubblicato il primo libro de Il Capitale, in cui illustra la legge del valore, solo dopo aver sviluppato nei manoscritti del III libro la trasformazione dei valori in prezzi di produzione. Bestie ancora peggiori, successivamente, hanno affermato che è vero che Marx prima di sviluppare ne Il Capitale la legge del valore aveva già affrontato il “problema” della trasformazione, ma lo fece in maniera superficiale, senza cercare di risolverlo!
Il solito Diego Fusaro, in Bentornato Marx, nella nota 606 alle pp. 257-58, tascabili Bompiani 2010, illustra con dovizia la critica di Bohm-Bawerk a Marx, senza peraltro rendere conto di tale “dettaglio”!
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