domenica 26 giugno 2011

A matita



Quindi la crisi è finanziaria? Così vorrebbero farci credere i portaborse del capitalismo, così come vorrebbero che il disastro di Fukushima fosse causa del terremoto. Nessuno verrà a raccontarci che le cause della crisi economica sono in realtà connesse all’opposizione interna tra valore e valore d’uso rinchiusa nella merce, ma preferiscono piuttosto confondere la causa oggettiva della crisi con uno dei fattori che ne accelerano il corso (*). Sono quelli che tutt'al più attribuiscono al metodo scientifico elaborato da Marx solo un modo diverso d'interpretare il mondo e non uno strumento potente per la sua trasformazione. Allo stesso modo nessuna “autorità” del cazzo verrà a dirci che le cause di Fikushima sono nel profitto che domina la ricerca, il risultato di una visione separata tra umanità e interessi economici e politici, cioè una strada che porta a tecnologie di “scissione” nate per la guerra e la distruzione, tecnologie che palesemente non sappiamo governare.

La crisi finanziaria attuale, soprattutto per quanto riguarda l’Europa, è anzitutto legata all’enorme debito degli Stati. Il mantenimento di determinati livelli di assistenza sociale, di standard dei servizi, di aiuto alle imprese, è garantito grazie ad interventi diretti e indiretti dello Stato, il quale impiega prevalentemente risorse prese a prestito sul mercato dei capitali in cambio di obbligazioni (titoli di Stato). La teoria vorrebbe che con lo sviluppo economico favorito dalla spesa statale vi fosse anche un incremento degli introiti sul lato delle imposte, in modo da mantenere il debito su livelli fisiologici accettabili. In una società in cui domina la grande proprietà questo è impossibile. Da un lato perché chi presta denaro allo Stato ha tutto l’interesse a mantenere e incrementare tale dipendenza in modo da lucrare sugli interessi, con ciò aumentando a dismisura un mercato speculativo sui titoli e i suoi derivati che provoca esso stesso motivi di enorme tensione finanziaria e crisi; dall’altro perché la ricchezza prodotta socialmente non entra mai totalmente in circolazione essendo in parte sempre crescente tesaurizzata dagli stessi capitalisti e quindi sottratta agli scopi della società. Ma soprattutto perché lo Stato non è un organismo indipendente ma uno strumento della lotta di classe in mano al capitale, per cui sia dal lato delle politiche fiscali, sia dal lato della spesa statale indotta, il capitale finanziario governa di fatto la situazione a proprio vantaggio. Succede ora che il mercato obbligazionario internazionale, cioè il mercato della speculazione sul debito, consideri l’esposizione debitoria di alcuni Stati troppo esposta e anzi in una situazione d’insolvenza sostanziale. A questo scopo, sempre tramite i suoi galoppini politici e i funzionari delle organizzazioni economiche nazionali e sovranazionali, la finanza internazionale (con l’uso delle corporation del rating, ecc.) cerca d’imporre delle misure “di stabilità” e cioè di rientro dal debito basate soprattutto sul taglio delle spese sociali, sul licenziamento dei dipendenti statali,   la svendita dei beni pubblici e la privatizzazione di ciò che resta dello stato sociale.

È evidente che tale situazione crea tensioni sociali e conflitti che diventeranno sempre più aspri e ingestibili da parte dell’ordine politico attuale con gli strumenti della repressione e i mezzi d’instupidimento ordinari. Perciò si faranno sempre più strada come necessarie delle misure straordinarie

(*) Nella crisi è in atto anzitutto la contraddizione tra valore d’uso e valore di scambio della forza lavoro in cui si fonda, nel suo sviluppo e nella sua rovina, l’intera società capitalista. Nonostante tutte le capriole degli economisti borghesi e la razza dei giornalisti falliti e dei blogger del cazzo, il tempo di lavoro vivo continua a permanere quale misura del valore di scambio e come unica fonte di valorizzazione del capitale.

Ogni giorno si possono leggere sull’argomento tonnellate di spazzatura nella quale nessun topo di fogna ha l’onestà intellettuale prima ancora che professionale di dire che non essendo il lavoro produttivo retribuito integralmente, questo crea già le condizioni dello squilibrio. È il modo sordido e meschino di questi pagliacci di concepire e misurare il lavoro solo come quello che soddisfa le esigenze del capitale e di negare la contraddizione tra valore d’uso e valore come contraddizione fondamentale del capitalismo, di non mettere in luce che a un dato livello dell’accumulazione la produzione di valori d’uso entra in contraddizione con le esigenze di valorizzazione del capitale.

Essi non solo fingono d’ignorare che le categorie economiche sono l’espressione di rapporti di produzione storicamente determinati, ma arrivano, quando arrivano, a negare la vigenza della legge del valore-lavoro nel modo di produzione attuale, adducendo magari il fatto che il lavoro vivo è divenuto una componente marginale dell’odierno processo di produzione. In altri termini, la quantità di merci prodotte appare – a questi servi – determinata non dalla quantità di lavoro erogato, ma dalla sua stessa forza produttiva. Peccato che questa pretesa fa a pugni col fatto che i padroni siano sempre più impegnati in una guerra forsennata per rubare “tempo di lavoro altrui”, e su questo punto gli apologeti dell’accademia e del sindacato tacciono, magari preferendo parlare di “competitività”.

4 commenti:

  1. Mi interesserebbe sapere nella sua ricostruzione del debito pubblico statale quanta parte attribuisce al cosiddetto "signoraggio".
    La ringrazio in anticipo se vorrà accordarmi una risposta. In ogni caso sappia che leggo il suo blog con molto interesse e lo trovo veramente acuto e preciso. Complimenti

    M.

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  2. grazie. le rispondo volentieri domani, con calma

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  3. credo di averle risposto oggi con il post "Marx e il signoraggio". ad ogni buon conto, ove fossi incorso in imprecisioni o avesse bisogno di chiarimenti (per quanto mi sarà eventualmente possibile) resto a disposizione.

    In senso stretto, tecnicamente, per quanto riguarda i proventi del "signoraggio" vero e proprio, leggendo a pag. 312 della Relazione al bilancio 2006 della Banca d’Italia si scopre che “il Consiglio direttivo della BCE ha deciso, come per il 2005, di non riconoscere alle BCN partecipanti l’intero ammontare del reddito da signoraggio della BCE, pari a 1.319 milioni, dei quali 241 riferibili all’Istituto (158 nel 2005). La somma è stata destinata ad alimentare un fondo diretto a fronteggiare i rischi di cambio, di tasso di interesse e di prezzo dell’oro“.

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  4. Ho letto il suo post sul signoraggio che è chiarissimo e come sempre puntuale e la ringrazio moltissimo di aver condiviso una materia certo non facile e dagli sviluppi molteplici. Vale sicuramente la pena di approfondire l'argomento e certamente colpisce l'incredibile portata del pensiero di Marx in ogni aspetto ecomomico. Ora capisco perchè a scuola non permettono di studiarlo accuratamente.La ringrazio ancora per l'acutezza dimostrata.

    M.

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