domenica 30 luglio 2023

L’Ucraina non era libera?

 


Vorrei chiedere a Ugo Tramballi, autore della recensione sull’inserto domenicale del Sole 24ore: l’Ucraina non era libera?

Il processo d’integrazione dell’Ucraina con l’Occidente è stato intrapreso già dal governo Yushchenko nel 2004? Ma non verso l’integrazione europea, passo che verrà dopo, ma subito in direzione della Nato, organizzazione militare avversa alla Russia sotto la supervisione e la forte dipendenza americana.

Se per alcuni Paesi dell’Europa orientale l’adesione alla UE e alla Nato poteva significare il loro ritorno nell’alveo occidentale, ciò non poteva valere per l’Ucraina, che paese dell’Europa occidentale non è mai stato, senza considerare che una parte non trascurabile della sua popolazione è russa (in alcune regioni è maggioranza). Di chi è dunque la responsabilità dell’emergere di un nuovo schema bipolare in questa parte del pianeta?

Un esempio analogo è dato dalla Giorgia. La Nato nel 1999 lanciò il MAP (Membership Action Plan), che puntava a giocare un ruolo significativo nell’umiliazione simbolica dell’ex superpotenza. L’aperta ostilità di Washington verso Mosca, che allora si dimostrava conciliante e cooperativa, si tradusse nel 2003 in un’ampia cooperazione, quasi esclusivamente militare, tra gli Stati Uniti e la Georgia di Mikhail Saakashvili, che ha fatto di questo Stato il terzo destinatario di aiuti americani (pubblici e privati) dopo Israele ed Egitto. La Georgia aderirà al MAP nel 2006.

Gli ucraini che tirano la carretta da mane a sera e i cui figli sono oggi a morire al fronte non erano liberi allora e non lo sono più oggi. L’Ucraina era una nazione libera, molto di più di quanto lo sia oggi e di quanto sarà domani, quale che possa essere l’esito della guerra in corso. Molto più di quanto sia effettivamente libera l’Italia e il cosiddetto “mondo libero” in generale. Qualsiasi PdC italiano provasse a dire a Washington che l’Italia non vuole più le basi americane nel territorio nazionale. Ah, si tratta di una limitazione volontaria della propria sovranità per ragioni di sicurezza ...

Tramballi, in apertura del suo articolo, ricorda il rapporto complesso e contraddittorio che la Russia ha storicamente intrattenuto con l’Occidente da Pietro il Grande a Vladimir Putin, un rapporto fatto di fascinazione e fiero risentimento, ma dimentica di citare, tra gli altri, dei fatti non proprio secondari, ovvero le tre invasioni subite dalla Russia da parte dei paesi occidentali, l’ultima delle quali è costata decine di milioni di morti e un territorio letteralmente devastato.

Deve forse stupire che la nazione più vasta del pianeta, ripresasi dopo la catastrofe postsovietica, manifesti la volontà di ristabilire ai propri confini delle zone di sicurezza e delle aree d’influenza? Quale altra grande o media potenza non vi aspira nei riguardi dei propri confini?

Pensiamo a che cosa succede in Ungheria, Polonia, Repubblica ceca e nelle Repubbliche baltiche, quindi i movimenti politici antiliberali, nazionalisti, xenofobi e in molti casi pregiudizialmente antirussi. Forse, chiedo, va meglio per quanto riguarda il livello di democrazia interna negli altri sei Stati entrati nella NATO (Albania, Montenegro, Macedonia del Nord, Croazia, Bulgaria e Romania)?

La guerra in Ucraina serve, tra l’altro, alla Nato per legittimare la propria esistenza e per ricompattare l’alleanza e rafforzare il proprio ruolo dopo un periodo di crisi, tanto che il presidente francese dichiarava ciò che tutti pensavano, ovvero che il patto atlantico era in uno stato di “morte cerebrale”. Privata del consenso tra i membri occidentali, gli unici alleati fedeli sembravano essere i nuovi membri e futuri candidati dell'Est.

Per ultimo, ma ci sarebbe tanto da dire ancora, vale la pena considerare che Washington ha una concezione molto elastica della propria “sicurezza”. Le sue truppe, quando non minacciano direttamente, stazionano nei pressi degli snodi strategici della mappa del pianeta, mentre nessuna forza militare è presente ai confini o nei pressi degli Stati Uniti. Dunque, sono ottant’anni che il bue dice cornuto all’asino.


sabato 29 luglio 2023

Mister X

 

“Though this be madness, yet there is method”.
(Amleto, II atto, scena II)

«Il cielo notturno è uno degli spettacoli più gloriosi che la natura mette in scena e gli umani lo stanno cambiando per sempre», ha detto Patrick Seitzer, astronomo dell’Università del Michigan che studia i detriti orbitali. Una foto scattata con lunga esposizione mostra la stella doppia Albireo visivamente ostruita dai satelliti Starlink.

I satelliti Starlink sono lanciati con vettori dalla società SpaceX (valore quasi 140 miliardi di dollari), con a capo Elon Musk. Ci sono oltre 10.300 satelliti in orbita attorno alla Terra, più dell’80% sono attualmente attivi. Il 53% dei satelliti attivi sono Starlink: 4.491 per la precisione, inclusi i lanci di Starlink fino al 16 luglio scorso. Musk conta di averne ben 42.000 in orbita nei prossimi anni.

I satelliti Starlink operano a meno di 500 km, in quella che è nota come “orbita terrestre bassa”. È decine di volte più vicina dei tradizionali servizi Internet via satellite che operano ad altitudini più elevate in “orbita geosincrona”.

I satelliti risalenti ai decenni del secolo scorso sono in genere di maggiori dimensioni, la loro orbita, situata più in alto nello spazio, limita le loro capacità di comunicazione rispetto ai satelliti più piccoli (delle dimensioni di un grosso frigorifero) che possono orbitare a un’altitudine inferiore, consentendo loro di collegarsi con i terminali sulla Terra per trasmettere servizi Internet ad alta velocità e a località remote.

I primi satelliti Starlink sono stati lanciati nel 2019. All’epoca, Internet via satellite era considerata una impresa da pazzi. Nei decenni 1990 e 2000, altre società avevano perseguito la via dei satelliti per comunicazioni a bassa orbita, ma con scarso successo a causa delle spese e delle difficoltà tecniche per portarli nello spazio (*).

Musk ha un vantaggio: i razzi di SpaceX tornano sulla Terra dopo un viaggio nello spazio e sono parzialmente riutilizzabili. Questo gli ha effettivamente dato il controllo di un treno espresso per consegnare costantemente i satelliti nello spazio, di dozzine alla volta.

Quasi ogni settimana, un razzo SpaceX carico di satelliti Starlink (anche 60) decolla da un sito in California o in Florida. Ogni satellite è progettato per funzionare per circa tre anni e mezzo. Ce ne sono così tanti in orbita che spesso vengono scambiati per stelle cadenti.

Affinché il sistema funzioni, è necessaria una costellazione di piccoli satelliti che copre il globo, fornendo un’ampia copertura nei paesi in cui Starlink è autorizzato a operare. I satelliti si collegano tra loro utilizzando i laser e si collegano a un terminale Starlink a terra, che scansiona costantemente il cielo per connettersi con il satellite più vicino che gli passa sopra, il quale a sua volta passa il segnale Internet al satellite che lo segue. Utilizzando una parabola, i clienti possono connettersi a Internet con i propri dispositivi.

Starlink offre velocità di download da Internet in genere di circa 100 megabit al secondo (megabit e non MegaByte, attenzione!), paragonabili a molti servizi di rete fissa. SpaceX generalmente addebita ai singoli clienti circa 600 dollari per ogni terminale che riceve una connessione dallo spazio, più un canone mensile di servizio di circa 75 dollari, con costi più elevati per aziende e governi. La società sostiene di conoscere la posizione, il movimento e l’altitudine di ciascun terminale Starlink.

Il servizio, che ha debuttato ufficialmente nel 2021 in una manciata di paesi, è ora disponibile in più di 50 paesi e territori, in gran parte dell’Europa, negli Stati Uniti, in Giappone e parti dell’America Latina. In Africa, dove l’accesso a Internet è in ritardo rispetto al resto del mondo, Starlink è disponibile in Nigeria, Mozambico e Ruanda, mentre una dozzina di altri paesi seguiranno entro la fine del 2024, secondo il sito Web di Starlink.

Militari, compagnie di telecomunicazioni, compagnie aeree, compagnie di crociera e spedizionieri marittimi si sono riversati su Starlink, che ha dichiarato di avere più di 1,5 milioni di abbonati.

Starlink è spesso l’unico modo per ottenere l’accesso a Internet in zone di guerra, aree remote e luoghi colpiti da disastri naturali. Viene utilizzato in Ucraina per coordinare gli attacchi dei droni e la raccolta di informazioni.

Più di 42.000 terminali Starlink sono ora utilizzati in Ucraina da militari, ospedali, imprese e organizzazioni umanitarie. Durante l’attività di bombardamento russa dello scorso anno, che hanno causato blackout diffusi, le agenzie pubbliche ucraine si sono rivolte a Starlink per rimanere online.

In questo periodo sono sorte domande su chi avrebbe pagato per il servizio di Starlink in Ucraina. SpaceX aveva inizialmente coperto alcuni dei costi, con gli Stati Uniti e altri alleati che fornivano finanziamenti. Musk alla fine dell’anno scorso ha disattivato l’accesso a circa 1.300 terminali Starlink, acquistati tramite un fornitore britannico, dopo che il governo ucraino non aveva pagato la tariffa mensile di 2.500 dollari per ciascuno.

In seguito, SpaceX ha comunicato al Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti che non poteva continuare l’accordo e ha chiesto al Pentagono di farsi carico dei pagamenti. La società ha stimato il costo in quasi 400 milioni di dollari in 12 mesi, secondo una lettera di SpaceX riportata dalla CNN.

Il governo degli Stati Uniti è uno dei maggiori clienti di SpaceX, utilizza i suoi razzi per le missioni della NASA e lancia satelliti di sorveglianza militare. Il Dipartimento della Difesa ha confermato di aver stipulato un contratto con Starlink, ma ha rifiutato di rendere noti i dettagli data “la natura critica di questi sistemi”.

Nel 2020, la Cina si è registrata presso un organismo internazionale per lanciare 13.000 propri satelliti Internet. Quest’anno la Cina si è lamentata con un panel delle Nazioni Unite che SpaceX stava mettendo in orbita così tanti satelliti da impedire ad altri di accedere allo

spazio. Va anche detto che Elon ha enormi interessi commerciali in Cina, e si stima che circa il 50 per cento delle nuove auto Tesla possano essere prodotte a Shanghai.

Anche l’Unione Europea l’anno scorso ha stanziato 2,4 miliardi di euro per costruire una costellazione di satelliti “sovrani”, da lanciare entro il 2027 per uso civile e militare.

C’è da chiedersi se è un tale gigantesco potere in mano a un singolo individuo o anche a dei gruppi privati si concili con i principi di libertà e democrazia di cui si vanta l’Occidente.

(*) OneWeb, una società britannica, era così afflitta da difficoltà finanziarie che dovette essere salvata dal governo britannico e venduta a un gruppo d’investitori. Amazon, fondata da Jeff Bezos, proprietario della società di missili Blue Origin, ha in programma di diventare, con Project Kuiper, un concorrente di Starlink, ma deve ancora portare un satellite nello spazio.

venerdì 28 luglio 2023

Gas serra: esattamente il contrario

 

Quali sono i principali gas serra? L’anidride carbonica (CO2), il metano (CH4), il monossido di diazoto (N20), gli idrofluorocarburi. La CO2 è il gas serra più rilasciato nell’atmosfera, 80% circa; il metano, 11%; il monossido di diazoto, 6%; gli idrofluorocarburi, complessivamente il 2% circa.

Attenzione però, i gas climalteranti diversi dalla CO2 intrappolano il calore in modo molto più efficace. In un periodo di 20 anni, il potere riscaldante del metano è 72 volte superiore a quello della CO2.

Quello che non dicono i dati proposti dalla UE è semplicemente questo: il metano ha una emivita più breve: dopo dieci anni, metà del metano in atmosfera si trasforma in vapore acqueo e in CO2. Se la presenza di metano nell’atmosfera non cresce, perché quella nuova emessa ogni anno è pari alla quantità che si ossida spontaneamente (pari al 2% annuo), il metano ha un “effetto serra” costante e limitato.

Ad ogni modo, per non farsi troppe illusioni, va tenuto conto che la “forzante” climatica del metano, agli attuali ritmi di crescita, avrebbe in questo secolo un ruolo decisamente più sensibile: “conterebbe” come un aumento di un terzo delle emissioni di CO2!

La preoccupazione è cresciuta quando la presenza media del metano nell’atmosfera terrestre, dopo un periodo di sostanziale stabilità tra il 1990 e il 2007, ha ripreso a salire rapidamente.

Quale poteva essere la causa? Si sono accusati gli allevamenti bovini, il maggior consumo di gas naturale e le relative fughe del sistema estrattivo e distributivo. Nuove analisi del metano presente nell’atmosfera terrestre negli ultimi anni, hanno permesso di studiare per così dire il “DNA”, permettendo di individuare con precisione l’origine chimica del metano presente in atmosfera.

Il “shale gas”, col quale si tende a sostituire il metano russo, ha una ben definita composizione isotopica propria, intermedia tra il metano di origine biogenica e quella fossile. La nuova impennata della presenza nell’atmosfera di metano, distinguendo tra le componenti “storiche” e le nuove concentrazioni, è dovuta ai giacimenti di shale gas e al metodo estrattivo capace di liberare maggior quantità di idrocarburi e inquinare le acque.

Il potenziale climalterante di un gas (Global Warming Potential – GWP) è riferito ad un arco temporale lungo: tipicamente 100 anni. Su questo periodo si effettua il confronto rispetto all’anidride carbonica. Ebbene, il GWP del metano in 100 anni è pari a 25, quindi ai fini del riscaldamento globale, una tonnellata di metano equivale a 25 tonnellate di anidride carbonica. Siccome il metano in atmosfera è 200 volte meno della CO2, l’effetto sul clima (in cent’anni) è un decimo della CO2.

Ad ogni modo, la generazione Greta Thumberg (e noi con lei) starebbe meglio se estrazione e consumo di metano, compreso shale gas, diminuissero drasticamente.

Le centrali elettriche alimentate a carbone hanno in Italia un rendimento medio di conversione del 34%, le moderne a petrolio del 51%, a gas ciclo combinato anche del 56%. È quindi evidente che, per produrre elettricità da fonte fossile, conviene senz’altro usare metano, non solo dal punto di vista delle emissioni climalteranti (CO2, metano e ossidi d’azoto), ma anche e soprattutto dal punto di vista degli inquinanti dannosi per la salute e l’ambiente, come ad esempio le polveri e i composti carboniosi.

Se tutto il carbone fosse sostituito da metano, usando le esistenti centrali a ciclo combinato, diminuiremmo le emissioni di CO2 di ben 15 milioni di tonnellate. In Europa, causa note vicende, sulle quali qui non entro nel merito, stiamo facendo esattamente il contrario.

Una gara scellerata e criminale

 

«Si vis pacem perpetua bellum» (se vuoi la pace prosegui la guerra). È la tesi di Chiaberge e molti altri che sostengono che bisogna continuare a sostenere militarmente il governo dell’Ucraina fino al raggiungimento della pace. 

*

Lo so, prevale la stanchezza, non si ha quasi più voglia di tifare per l’uno o per l’altro dei contendenti. Per noi, parliamoci chiaro, questa guerra è solo un gioco di società, di tastiera. Poi, e vale per tutti, è venuto il caldo, la grandine e altro cazzeggio che interessa di più.

Fossimo acquattati in una trincea o mandati all’assalto, avremmo tutti una visione diversa di ciò che accade e di ciò che è in gioco. Tuttavia la guerra continua e anzi questa settimana l’Ucraina ha iniziato una nuova importante fase della sua offensiva con massicci attacchi corazzati contro le difese trincerate russe.

Il New York Times ha riferito, sulla base delle dichiarazioni di funzionari statunitensi, che “la spinta principale della controffensiva ucraina di due mesi è ora in corso”.

Il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato giovedì: “Posso confermare che le ostilità si sono intensificate in modo significativo”, affermando che è stato utilizzato un “gran numero di veicoli corazzati ucraini”, e che stanno subendo “pesanti perdite”.

Perdite? Eh, qui viene il bello, anzi il vomitevole del grande giornalismo. Lunedì scorso, il New York Times ha pubblicato e rapidamente modificato un articolo che dava una rappresentazione realistica delle perdite (ucraine).

Sepolto a pagina 9 e senza riferimenti in prima dell’edizione cartacea, riportava un ampio e dettagliato rapporto sull’offensiva ucraina intitolato “Truppe esaurite, munizioni inaffidabili: gli ostacoli di Kiev a est”. Eloquente il sottotitolo che descriveva la guerra in “macabro stallo”.


Quell’articolo era stato pubblicato online il giorno prima con il titolo “Soldati stanchi, munizioni inaffidabili: le molte sfide dell'Ucraina”. L’articolo presentava l’offensiva come una sanguinosa debacle, in cui le forze ucraine subiscono enormi perdite, che sono poi sostituite con reclute più anziane “costrette” a combattere.

L’articolo, tra le altre cose non proprio lusinghiere per la situazione delle forze ucraine, segnalava che esiste un’unità con un tasso di vittime del “200 per cento”, il che significa che tutti i suoi soldati sono stati uccisi o feriti, poi sostituiti, e anche costoro tutti uccisi o feriti.

Diceva anche che le giovani truppe uccise in combattimento sono generalmente sostituite con persone molto più anziane, segno questo che l’Ucraina sta esaurendo le truppe in età da combattimento.

Il NYT, come altri giornali “autorevoli”, le notizie le pubblica, eccome se le pubblica. Adottando però la tattica del cosiddetto “buried lede”, ovvero quella di relegare le notizie vere ma scomode in fondo all’articolo, in modo di non dare rilievo al punto più importante dell’articolo. Ma nel caso di specie, il quotidiano newyorchese ha fatto anche di più: non era sufficiente limitarsi a seppellire queste rivelazioni sulle perdite ucraine. Era necessario cancellarle.

La versione iniziale dell’articolo pubblicato online conteneva un paragrafo in cui si affermava che l’Ucraina stava ottenendo “piccoli guadagni territoriali” a un “costo enorme”. Proseguiva con la seguente citazione:

«”Stiamo scambiando la nostra gente con la loro gente e loro hanno più persone e attrezzature”, ha detto un comandante ucraino il cui reparto ha subito circa il 200% di vittime da quando la Russia ha lanciato la sua invasione su vasta scala lo scorso anno».

Dopo poche ore, questo paragrafo è stato rivisto come segue:

«”Stiamo scambiando la nostra gente con la loro gente, e loro hanno più persone e attrezzature”, ha detto un comandante ucraino il cui reparto ha subito pesanti perdite da quando la Russia ha lanciato la sua invasione su vasta scala lo scorso anno».

Vale la pena ricordare che cosa s’intende generalmente per “pesanti perdite”: in Normandia sbarcarono sulle spiagge 156.000 soldati alleati, con perdite di circa 10.000 uccisi o feriti, ossia il 6%, percentuale valutata come “perdite pesanti”. Si può arrivare a perdere anche un quarto o addirittura a un terzo degli effettivi parlando di perdite pesanti. Ma quando si parla di perdite del 200%, vuol dire che i soldati dell’intera unità sono stati uccisi o feriti, quindi sostituiti e poi uccisi o feriti di nuovo. Dunque, si tratta di un’ecatombe. Vuol dire che quei soldati sono mandati a morire senza alcuna speranza di salvare la pelle.

Le modifiche apportate all’articolo non finiscono qui, ne ho proposto un esempio per darne il senso.

C’è poco da fare il tifo per queste perdite, ed è vergognoso rallegrarsene. Ma anche semplicemente rattristarsene. Si tratta di una tragedia che avrà conseguenze per generazioni, che non può più essere imputata solo all’aggressione russa; riguarda la responsabilità di tutti coloro che rifiutano una tregua e il cessate il fuoco, dunque di aprire immediatamente una trattava. Perché questa guerra, com’è evidente e ho scritto più volte, non può finire se non con una trattativa, salvo ulteriore inasprimento. Questa è una guerra senza senso, fomentata solo da interessi in gran parte inconfessati e calcoli meschini, ossia sapendo bene a che cosa s’andava incontro. Sedicenti statisti a cui viene ancora permesso, in nome di quel cazzo che vogliono, di mandare a morire centinaia di migliaia di giovani, da una parte e dall’altra, in una gara al massacro scellerata e criminale.

giovedì 27 luglio 2023

Il tempo è impazzito, signora mia, lo dice anche l’ONU

 

I cambiamenti nel clima ci sono sempre stati, anche estremi (*). Estati con eventi estremi, frequenti e generalizzati come quelli di quest’anno personalmente non le ricordo. La mia esperienza (mai mi era capitato di dormire con la coperta in luglio!) e un’estate anomala però non significano nulla, bisognerà vedere che cosa accadrà nelle estati dei prossimi anni, quale sarà la persistenza di queste anomalie.

Ricordo nel 1985 la copertina della rivista Le scienze e un lungo articolo in cui si parlava di una nuova “glaciazione”. Poi le cose sono cambiate e da alcuni decenni le temperature sono salite e la calotta artica si sta sciogliendo più del solito, anche se il riscaldamento globale è accompagnato da un raffreddamento in alcune regioni del globo.

Il cambiamento climatico è reale. Quando però si sentono climatologi affermare: «Il cambiamento climatico sta avvenendo qui e ora: basta guardare agli estremi di quest’anno per crederci», ebbene c’è da osservare, tra l’altro, che i cambiamenti climatici fanno parte del ciclo naturale. Che cosa dovremmo aspettarci altrimenti, un clima stabile e immutato per sempre?

A ciò va aggiunta una realtà a cui fa riferimento qualsiasi studio serio: la famosa incertezza dei modelli climatici. Abbiamo a che fare con degli scenari, come quello delineato nel 1972 dal Club di Roma sulla grande crisi petrolifera e dei mercati cerealicoli (che non ha trovato conferma). L’incertezza dei modelli climatici è legata soprattutto alle cause del cambiamento. Questi modelli climatici non sono molto diversi dai modelli econometrici, i quali prevedono una crisi di ciclo ma quanto alle sue cause reali si tira ad indovinare (**).

Quali le cause del cambiamento climatico? Antropiche sicuramente, ma precisamente quanto incidono? Oppure cause naturali, tipo la riduzione della forza (-10%) del campo magnetico terrestre? Quanto incide eventualmente tale fenomeno (e altri fenomeni naturali) nel cambiamento del clima? Non lo so, e a quanto mi risulta allo stato attuale non lo sa con certezza nessun altro (***), tranne i giornalisti e altri “esperti” di CO2. È su queste basi aleatorie che si pretende di “governare il clima” (idioti).

(*) Il Grande Vento del 1362 danneggiò edifici e terrorizzò gli abitanti in Inghilterra, la tempesta ebbe un impatto molto più devastante nei Paesi Bassi, Germania e Danimarca. Lungo le coste di questi paesi, le mareggiate spazzarono via città e villaggi, provocando decine di migliaia di morti.

A provocare la grande tempesta del 26 novembre 1703 fu un ciclone extratropicale che colpì l’Inghilterra centrale e meridionale. I forti venti fecero crollare 2.000 comignoli a Londra e danneggiarono la New Forest, che perse 4.000 querce. Enormi onde sul Tamigi distrussero più di 5.000 case lungo il fiume. Le navi furono spinte fuori rotta per centinaia di miglia e oltre 1.000 uomini di mare morirono solo a Goodwin Sands. La Chiesa d’Inghilterra dichiarò che la tempesta era la vendetta di Dio per i peccati della nazione.

La grande tempesta del 1987 fu provocata da un ciclone extratropicale nella notte tra il 15 e il 16 ottobre, con venti di uragano che hanno causato vittime nel Regno Unito, in Francia e nelle Isole del Canale. Almeno 22 persone rimasero uccise in Inghilterra e Francia.

Eventi di questa distruttiva portata sono per fortuna piuttosto rari. Molto più frequenti gli anni siccitosi.

Nei due anni 1718 1719 si ebbe in Francia un caldo secco, violento, lungo e sostenuto. A Parigi, il 7 agosto 1718, il termometro di Lahire, nonostante l’esposizione sfavorevole, segnava comunque verso le tre del pomeriggio 35° o 36°: salì alle stesse cifre l’11, il 21 e il 23. Seguì un inverno molto mite.

La maggior parte degli alberi fu ricoperta di fiori già a febbraio 1719. Il forte caldo è ricomparso con il mese di giugno, più intenso di quelle dell’anno precedente e durato anche molto più a lungo. A Parigi il termometro di Lahire indicava una temperatura massima di 37°; inoltre la tavola di Cassini attribuì a quella estate quarantadue giorni con una temperatura di 31°. Contemporaneamente a Marsiglia un caldo insolito aveva fatto rifiorire gli alberi nel mese di ottobre, che poi avevano preso nuovi frutti. Padre Feuillée riferì che il 18 dicembre raccolse ciliegie ben mature.

L’estate del 1726 iniziò verso la fine di maggio, per poi proseguire nei mesi di giugno, luglio e agosto. Cassini contò a Parigi sessantadue giorni con una temperatura di 25°, e dieci giorni con una temperatura di 31°, il massimo calore fu osservato il 27 e 28 agosto, con circa 34°. I frutti sono maturati un mese prima del solito.

Il caldo dell’anno 1727 durò molto più a lungo. Dopo un inverno mite, il 7 febbraio il termometro cominciò a salire. Il successivo 10 maggio segnava già, all’alba, 18°, e alle due di sera quasi 27°. Il caldo è continuato e aumentato durante i mesi di luglio e agosto. Il 7 di quest’ultimo mese, alle tre del pomeriggio, raggiunse il massimo di 35°; da allora la temperatura ha continuato ad essere elevata per tutto il resto del mese di agosto e per tutto il mese di settembre.

Per brevità facciamo un salto di mezzo secolo: anche l’estate del 1778 ebbe un caldo forte, lungo e costante. Sotto la loro influenza, diversi alberi da frutto fiorirono una seconda volta; il caldo dell’estate del 1793 scoppiò improvvisamente. I mesi di maggio e giugno erano stati molto freddi; molta neve era caduta sulle Alpi e su altre montagne; carri carichi erano stati visti nella Bassa Austria attraversare un fiume ghiacciato alla fine di giugno. Il grande caldo iniziò a Parigi il 1° luglio. Durante tutto il mese il termometro arrivava, a metà giornata, a 40°; dodici volte da 24° a 34°, e dieci volte da 34° a 40°; la sua elevazione fu appena minore durante i primi diciassette giorni del mese di agosto. Il caldo massimo ha dato 38° l’8 luglio all’Osservatorio Reale di Parigi, e 40° il 16 dello stesso mese all’Osservatorio della Marina.

Si potrebbe continuare a lungo anche per il secolo successivo. Le notizie relative alla Francia sono tratte da: Cambiamenti nel clima della Francia, pubblicato nel 1845.

(**) Sugli esperti che fungono da riferimento in materia di cambiamenti climatici, vale a dire l’IPCC (Gruppo d’esperti intergovernativi sul Climate Change), si tratta di un’organizzazione nata nel 1988 su richiesta del G7, dell’OMM (organizzazione meteorologica mondiale) e del Programma delle Nazioni Unite. Vi sono rappresentati tutti i paesi del mondo (salvo rare eccezioni). Il suo ruolo è quello di valutare le informazioni scientifiche, tecniche e socio-economiche relative al rischio di cambiamento climatico indotto dall’uomo. L’IPCC non è quindi un laboratorio o team di ricerca, né un’organizzazione che riunisce un campione di scienziati tutti specialisti nel cambiamento climatico: «I membri dell’IPCC sono nominati dai governi che rappresentano, senza tuttavia avere necessariamente una formazione scientifica». Va inoltre notato che «le pubblicazioni scientifiche studiate dai membri dell’IPCC sono scelte da questi stessi membri, cosa che non esclude “distorsioni”. Inoltre, alcuni membri dell’IPCC sono dei politici. Questi sono quindi obbligati a obbedire a determinati vincoli, pressioni o obblighi di natura politica, economica o di altra natura, e non rientrano più in un quadro strettamente scientifico».

(***) L’indebolimento del campo magnetico e le inversioni polari potrebbero influenzare il clima globale. Si obietta che i dati attuali non supportano certezze su questo punto. Vero. Tuttavia tale ipotesi si basa sul fatto che i campioni di sedimenti prelevati dal fondo dell’oceano mostrano prove di importanti cambiamenti climatici che si sono verificati nello stesso periodo dell’inversione magnetica avvenuta 66,3 milioni di anni fa. Senza per questo escludere altri eventi estremi concomitanti. Per esempio una monumentale eruzione vulcanica in India, i Deccan Traps. Anche oggi i Deccan stanno eruttando e il clima si sta riscaldando. La correlazione non porta necessariamente a un nesso di causalità, ma ciò vale anche per altri fattori, compresi alcuni di origine antropica, dati però per scontati. 

mercoledì 26 luglio 2023

[...]

No, dei patrioti m’interessa un cazzo. Spiegate voi perché la Russia non è ancora fallita e se c’è ancora speranza. 

In treno con Proust

 

Ha provocato clamore un articolo di Alain Elkann, dal titolo Sul treno per Foggia con i giovani “lanzichenecchi”. Clamore non solo per il contenuto, quanto per il fatto che a scriverlo, con la stilografica, è stato il padre di un importante azionista di una nota multinazionale dell’auto, nonché proprietario della società che controlla il quotidiano che l’ha pubblicato. Clamore anche perché i giornalisti dello stesso quotidiano non hanno gradito, tradendo una falsa coscienza degna della buonanima del Fondatore.

Mi chiedo di che cosa ci si debba stupire di Alain Elkann, uno che viaggiando in treno vuole godersi in pace le lunghe scene d’albergo sulla spiaggia di Balbec e la camera da letto parigina di Proust. Niente in viaggio batte la dimensione interiore di una lettura come quella. 

Alain avrebbe potuto scrivere di mille altre cose più frizzanti e divertenti, per esempio sul funzionamento perverso degli esseri umani e di questa società fatta a loro immagine. E invece ci fa sapere che tra i latrati dei nuovi lanzichenecchi lui e Proust erano diretti a Foggia!

Questa la vera domanda, il lato più autentico dello scandalo: che cazzo ci andava a fare uno come lui in una delle città incontestabilmente più brutte della penisola, in uno dei luoghi urbani più scalcagnati dopo Roma?

Elkann e Proust, entrambi ebrei e atei, lo stesso approccio da ricercatore, ma con esiti tanto diversi. Alain non ci dice nel suo articolo di quale Proust si tratta, né di quale edizione. Un volume nella prestigiosa raccolta La Pléiade, o forse quella edizione originale venduta da Sotheby’s per un milione e mezzo di euro di un rarissimo esemplare della primissima tiratura del volume iniziale della Recherche, pubblicato nel 1913? Ecco di che cosa avrebbe dovuto informare Alain i lettori di Repubblica, altro che di schiamazzi inurbani di un gruppo di scalmanati.

Sappiamo che il francese si è disperso a lungo prima di sprofondare nella solitudine della scrittura e la realizzazione del suo celebre labirinto di libri (sette volumi!). Usciva sempre la sera, in posti a volte sgradevoli, dove non beveva solo tisane, e amava masturbarsi alla presenza di pantegane che si sbranano tra loro (davvero!). Già in Du cote de chez Swann c’è la questione della masturbazione, chissà se è un tema che ha accarezzato la curiosità anche di Alain. Poi c’è il bacio della sera, tra il bambino narrante e sua madre, scena fondante de La Recherche, ma diciamocelo francamente senza perifrasi: due palle!

E per il resto che cosa ci racconta Proust di tanto diverso di ciò che accade oggi? La borghesia e l’aristocrazia del Faubourg Saint-Germain avevano fatto della riva destra di Parigi il luogo privilegiato del loro potere, prima che la guerra mondiale bruciasse la loro ricchezza. E chi aveva scatenato quella guerra infame se non i lanzichenecchi di allora, cioè la stessa borghesia e aristocrazia europea?

Proust viveva in un mondo che si stava autodistruggendo, come un edificio abbandonato che si sgretola e si scrosta a poco a poco. Lo scorrere del tempo, certo, ma soprattutto l’uso che ne fanno gli umani, armati fino ai denti, ora in Ucraina, ieri in Siria e in tanti altri posti remoti. Ma domani, chissà, nei nostri luoghi. Altro che vento, tempesta e qualche vetro rotto.

I lanzichenecchi di allora e i lanzichenecchi di oggi, quelli che a passi felpati percorrono i lunghi corridoi tirati a lucido dei grandi palazzi sede di covi da cui scaturiscono parole e atti che sono al di là di noi, e che però impattano direttamente con le condizioni della nostra vita.

Signor Alain, la prossima volta trovi il tempo, senza inclinazioni alla nostalgia, di parlare a noi piccoli borghesi e aristocratici operai anche di questi lanzichenecchi occulti. Per favore, grazie.

martedì 25 luglio 2023

Il "nemico"

 

L’albero della menzogna nasconde la foresta, quella dei rapporti economici reali. Tali rapporti dimostrano che la libertà politica e giuridica è solo la libertà di vendere la propria forza-lavoro, ossia una necessità implacabile per la maggioranza delle persone che non possiedono altro mezzo per sfuggire alla loro condizione di bisogno.

La menzogna del pedagogismo democratico sta nel fatto che le persone non possono formarsi un’opinione libera e consapevole se non solo libere dal condizionamento creato dalla loro situazione di dipendenza dal bisogno e dalla propaganda dei padroni del mondo.

La secolare lotta della borghesia in campo economico e i suoi sforzi per estromettere le classi feudali e teocratiche dalla loro posizione chiave nel governo dello Stato, quel formidabile scontro di interessi che sfociò infine nella rivoluzione armata e portò la borghesia al potere, ebbe il suo riflesso in una parallela lotta di idee e teorie (*).

Ed è precisamente ciò che manca oggi alle classi subalterne dopo decenni di menzogne e d’istupidimento coatto promosso scientificamente.

La borghesia enciclopedista di allora non vide alcuna contraddizione tra le rivendicazioni di libertà di pensiero e di azione per tutti gli uomini e l’uso della dittatura e del terrore per impedire alla controrivoluzione interna o all’intervento straniero di restaurare il vecchio regime. Il rivoluzionario ateo pretendeva di condurre una crociata in nome della dea Libertà, ma non trovava al tempo stesso incompatibile, facendo uso sistematico della ghigliottina, sopprimere la libertà del nemico di classe che difendeva i suoi antichi privilegi (**).

Dunque lotta armata e terroristica della borghesia per sopprimere l’avversario di classe e il vecchio sistema. Dopo la lotta armata per il potere, la prima fase del dominio politico borghese consistette nell’esercizio di una dittatura di classe per estirpare ogni vestigia della vecchia società e reprimere ogni tentativo di restaurazione. Assunse molteplici aspetti a seconda del paese considerato, presentando un’alternanza di controffensive reazionarie e ondate rivoluzionarie che finirono per vincere.

Consolidato il proprio potere, la borghesia non tollerò più alcuna opposizione reale: se ne ebbe la prova con la Comune di Parigi. La borghesia francese si alleò con i nemici del giorno prima, i prussiani, per massacrare circa 20.000 comunardi che si erano già arresi, deportandone altre migliaia nell’inferno senza ritorno della Guyana.

La categoria di “nemico del sistema”, è nozione che include qualunque soggetto sia ritenuto responsabile di destabilizzare le strutture economiche o politiche di un paese. È con queste argomentazioni che, per esempio nei primi anni 1980, Margaret Thatcher cercò di applicare la legge antiterrorismo allo sciopero dei minatori.

Nella normativa antiterrorismo, attribuendo il carattere di “nemico del sistema”, si autorizza la qualificazione di “terroristi” e si consente di sottoporre gli indagati e arrestati a procedure eccezionali. Il potere ha così la possibilità di ridefinire l’atto politico, di dividerlo in due parti, l’atto legittimo e l’azione terroristica, “il campo del bene e il campo del male”.

È considerato “nemico” chiunque non sia in grado di promettere almeno in qualche misura fedeltà all’ordinamento vigente. Scatta il “diritto penale del nemico” volto a colpire e reprimere alcune precise categorie sociali, che assumono di per sé valenza deviante.

Si tratta di procedure derogatorie del diritto comune, ossia di un diritto strumentalizzato di sospensione o restrizione dei meccanismi di tutela delle libertà fondamentali per determinate categorie di individui, e di misure controllate da apparati autonomi del potere esecutivo e dalle forze di polizia. Tali le procedure derogatorie (configurate anche come veri e propri atti sistematici di tortura, come il 41-bis) possono essere facilmente estese ad altri nuovi reati in caso si ravvisi uno stato di eccezionalità.

Lo abbiamo sperimentato da ultimo nel contesto pandemico, laddove il primato dello stato d’emergenza sul diritto ha assicurato il dominio della procedura eccezionale stabilita per decreto, che diventa il mezzo attraverso il quale i diritti fondamentali vengono sistematicamente sospesi e violati. Neutralizzando le varie garanzie costituzionali, si sospende la legge.

(*) Nel classico esempio della rivoluzione del 1789, il Terzo Stato dapprima si limitò a rivendicare la sua quota di potere nelle istituzioni pubbliche fino ad allora monopolizzate dall’aristocrazia e dal clero, ma poi, servendosi della forza del Quarto Stato, una nuova minoranza di proprietari e grandi commercianti col loro seguito di ideologi e legulei arrivò presto a privare le classi reazionarie di ogni influenza politica.

Il Quarto Stato, cioè la grande massa di poveri e lavoratori sacrificati al benessere dei privilegiati, aristocratici o borghesi, non disponeva né delle armi critiche che gli avrebbero consentito di comprendere la reale portata della rivoluzione in atto, né di esitare ad appoggiare la borghesia nel suo assalto al passato.

(**) Non solo gli aristocratici, ma anche rivoluzionari moderati come il poeta André Chénier (reso immortale da Umberto Giordano), aderente al Club dei Foglianti, del quale oggi ricorre l’anniversario della sua decapitazione (25-7-1794).

lunedì 24 luglio 2023

«La libertà schiacciata dai padroni del mercato»

 

«L’estensione della libertà individuale finisce per trasformarsi nel suo opposto, nella formazione di un potere privato che comprime fino a schiacciare la libertà economica dei singoli, siano consumatori o altri produttori. L’accumulazione di potere economico non va solamente a scapito degli spazi individuali di libertà economica, ma incide sugli stessi meccanismi della democrazia.

«Il potere economico finisce per condizionare e deviare i meccanismi democratici e la stessa produzione normativa favorendo regole di vantaggio e assetti regolamentari suscettibili di cattura da parte dei regolati. Si può pensare all’intrico di norme tributarie che permettono alle imprese multinazionali di abbattere il loro debito fiscale approssimandolo allo zero.

«Il processo di crescente concentrazione dell’economia e i problemi sorti con l’affermarsi delle piattaforme digitali hanno messo in luce come l’approccio di consumer welfare si sia dimostrato carente, e ha favorito paradossalmente la formazione e l’esercizio di potere monopolistico e ha intralciato il funzionamento del processo concorrenziale che tale potere tende invece a limitare.

«Il potere di mercato ha prodotto una serie di conseguenze negative ultronee alla crescente concentrazione economica, ad esempio in termini di creazione di diseguaglianze e compressione del potere del fattore lavoro, così come tutta una serie di conseguenze negative non-monetarie per i consumatori, ed è inevitabile pensare qui al problema dell’uso dei dati personali [...] .»

Questo è ciò che dice, in buona sostanza e per quanto c’interessa, Roberto Rustichelli, presidente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato in un suo intervento presso l’Autorità Antitrust.

Lo si può tradurre come segue: la democrazia è una delle forme della dittatura di classe. La forma più favorevole finché le condizioni sociali e politiche lo consentono, poiché è la forma di regime più stabile (altrimenti subentrano le procedure d’urgenza e di eccezionalità, la violenza pura viene reinserita nell’ordine giuridico). Ad avvantaggiarsene è comunque il sistema imperialistico delle multinazionali. Un tempo, solo a parlarne, si veniva irrisi.

Che la democrazia sia una delle forme che assume la dittatura di classe non lo dico io, lo dimostra il possesso storico del potere da parte della grande borghesia e la struttura imperiale attraverso la quale si stabiliscono programmi e direttive, dunque le condizioni che fanno sì che i rapporti sociali esistenti (rapporti di produzione, di sfruttamento e di appropriazione della ricchezza sociale) si riproducano e si perpetuino. Ci dovremmo porre sempre la stessa domanda: chi esercita il potere effettivo, per quale classe?

domenica 23 luglio 2023

Obsolescenza programmata per gli anziani

 

Quella di morire, piuttosto che soffrire, è già una soluzione alternativa, che aspetta una legge ad hoc. Si apra la possibilità di liberarsi almeno dei più deboli, che si offra loro gentilmente di liberarsi di sé stessi, innanzitutto agli anziani, che potrebbero essere ammessi alla procedura. Una soluzione pratica ed economica.

Diversi anni fa, su questo “blog di nicchia” (“purtroppo”, dice quello), scrissi che l’eutanasia non solo sarebbe diventata un diritto previsto dalla legge, ma sarebbe stata infine anche incoraggiata. Non già chiamandola eutanasia o suicidio assistito (siamo pur sempre un paese largamente esposto al cattolicesimo e dunque all’ipocrisia), ma con una più neutra definizione: “assistenza attiva”. Tempo al tempo e in questo decennio ci arriveremo anche in Italia. Anzi, ci siamo già per altre vie, ossia con l’accelerata dismissione della sanità pubblica.

L’80% delle persone che muoiono ha più di 80 anni. Un’affezione grave e cronica con prognosi infausta a medio termine è la caratteristica frequente della vecchiaia. Le menomazioni fisiche irreversibili si accompagnano a patologie plurime per le quali spesso non si offre possibilità di cura, per cui l’anziano spesso è considerato “troppo vecchio” per meritare di essere curato, un po’ come il mio smartphone in stato di obsolescenza programmata. Del resto, anche l’offerta di cure palliative rimane inaccessibile per larga parte di coloro che ne hanno bisogno.

E qui sorge un problema a riguardo delle capacità di discernimento. Vanno escluse, in linea di principio, le persone affette da malattie neurodegenerative, come l’Alzeihmer? Oppure si potrà procedere, per così dire, d’ufficio? Se poi coinvolgiamo i parenti, corriamo anche il rischio di trovarci di fronte a rappresentazioni molto ciniche, del tipo: “è vecchio, meglio che crepi”. Senza contare che i parenti figurano anche (soprattutto) come eredi. La condizione di libera volontà, spesso invocata a difesa del soggetto, non potrebbe essere garantita.

Rimane il tema delle disposizioni anticipate, che solleva altri interrogativi. Posso assicurare che non sono rari i casi in cui le persone che hanno sempre desiderato l’eutanasia nel caso si presentassero determinate condizioni, il giorno in cui si riesce a gestire il dolore e l’ansia non manifestano più la volontà di morire.

Avere un dibattito costruttivo sulla morte e sull’eutanasia implica un dibattito approfondito sulla società in cui viviamo. Impossibile il dibattito in una società come la nostra, tanto più in un Paese come il nostro, dove già ogni nonnulla scade in netta contrapposizione ideologica. Si arriverebbe all’idea che certe vite non valgono la pena di essere vissute, concretizzando la forma più acuta di ageismo. Poi toccherebbe ai più deboli, ai disabili, ai più dipendenti e, perché no, ai meno meritevoli.

Pensate che stia esagerando? Leggo dall’inserto del Sole 24ore odierno: «Nel 2020 il governo inglese discuteva della possibilità di incrementare la qualità della popolazione incentivando la riproduzione di persone con elevati quozienti l’intelligenza».

Gli inglesi sono pragmatici non meno dei tedeschi. Fu il cugino di Charles Darwin, Francis Galton, ha inventare la parola eugenetica, il cui prefisso, eu-, indica che si intende operare a fin di bene, e il suffisso definisce il terreno su cui agire. Le buone intenzioni, com’è noto, furono tradite. Galton sostenne che la «Razza più ricca di talento che la storia ricordi è senza dubbio quella degli antichi greci». È partendo da questo suprematismo che si arriva allo sterminio e al genocidio.

sabato 22 luglio 2023

Comprendere il presente, prevedere il futuro

 

Nonostante la complessità del loro design, i semiconduttori sono, in un certo senso, piuttosto semplici: minuscoli pezzi di silicio scolpiti con matrici di circuiti. I circuiti si accendono e si spengono in base all’attività di interruttori chiamati transistor. I primi chip, inventati alla fine degli anni 1950, contenevano solo una manciata di transistor. Oggi il semiconduttore primario in un nuovo smartphone ha tra i 10 ei 20 miliardi di transistor, ciascuno delle dimensioni di un virus, “fotografato” come in una torta a strati nella struttura del silicio.

Il tasso di progresso negli ultimi sei decenni è stato notoriamente descritto dalla legge di Moore, che ha osservato che il numero di transistor che possono essere inseriti in un chip è quasi raddoppiato ogni due anni. Per dare un’idea concreta della velocità in cui sono stati sviluppati i chip, basti notare che se gli aeroplani fossero migliorati alla stessa velocità dei chips, ora volerebbero a una velocità parecchie volte superiore a quella della luce. Nessuna tecnologia nella storia della civiltà umana ha mai eguagliato la velocità di sviluppo della potenza di calcolo di questi strumenti.

Gli impianti di produzione di semiconduttori, noti con l’acronimo fab, sono le fabbriche a più elevato investimento del mondo (3-4 miliardi), dove avviene la produzione più complessa e in una scala mai raggiunta prima con nessun altro dispositivo. La più ampia industria dei chips è una rete di interdipendenza reciproca, diffusa in tutto il pianeta in regioni e aziende altamente specializzate, che si avvalgono di catene di approvvigionamento di lunghezza e complessità eccezionali. In buona sostanza questo sistema di connessioni rappresenta un manifesto della globalizzazione (*).

Pertanto, non è difficile comprendere la fondamentale importanza strategica assunta da questi chips e la guerra che si è scatenata per il controllo sulla loro progettazione, produzione e commercializzazione.

«Lo scorso ottobre, il Bureau of Industry and Security degli Stati Uniti (B.I.S.) ha pubblicato un documento che, sotto le sue 139 pagine di denso gergo burocratico e minuti dettagli tecnici, equivaleva a una dichiarazione di guerra economica alla Cina».

Queste parole si possono leggere in un articolo del New York Times a firma Alex W. Palmer pubblicato il 12 luglio scorso.

Il documento, scrive Palmer, proviene da uno dei 13 uffici all’interno del Dipartimento del Commercio, il B.I.S. per l’appunto, che «impiega circa 350 agenti e funzionari, che monitorano collettivamente transazioni per un valore di migliaia di miliardi di dollari che si svolgono in tutto il mondo».

«Durante il culmine della Guerra Fredda, quando i controlli sulle esportazioni verso il blocco sovietico erano più severi, il B.I.S. era un hub critico nelle difese occidentali, elaborava fino a 100.000 licenze di esportazione all’anno. [...] Oggi il numero è di 40.000 e sta salendo. Con una lista nera tentacolare conosciuta come l’elenco delle entità (attualmente 662 pagine e oltre), numerosi accordi multilaterali preesistenti sul controllo delle esportazioni e azioni in corso contro Russia e Cina, B.I.S. è più impegnato che mai.»

Con i controlli sulle esportazioni decisi il 7 ottobre 2022, il governo degli Stati Uniti ha annunciato la sua intenzione di paralizzare la capacità della Cina di produrre, o addirittura acquistare, i chip di fascia più alta. La logica della misura è semplice: chips avanzati, supercomputer e A.I. sono sistemi che alimentano e consentono la produzione di nuove armi e apparati di sorveglianza.

Pertanto, la giustificazione ufficiale per i controlli sulle esportazioni è che mirano a frenare lo sviluppo militare cinese. Durante la sua recente visita in Cina, il segretario al Tesoro Janet Yellen ha affermato che erano mirati in modo ristretto e non mirati all’economia in generale. Il che è palesemente falso.

Palmer ci rivela che «Nella loro portata e significato le misure difficilmente avrebbero potuto essere più radicali, mirando a un obiettivo molto più ampio dello stato di sicurezza cinese. [...] Anche se forniti sotto forma di regole di esportazione aggiornate, i controlli del 7 ottobre cercano essenzialmente di sradicare l’intero ecosistema cinese di tecnologia avanzata. “La nuova politica incarnata il 7 ottobre è: non solo non permetteremo alla Cina di progredire ulteriormente tecnologicamente, ma invertiremo attivamente il loro attuale stato dell’arte”, afferma Allen. CJ Muse, analista senior di semiconduttori presso Evercore ISI, il quale la mette così: “Se mi avessi parlato di queste regole cinque anni fa, ti avrei detto che è un atto di guerra: siamo in guerra”.»

La portata di questa guerra tecnologica è chiarita da Palmer in modo esplicito: «Se i controlli avranno successo, potrebbero ostacolare la Cina per una generazione; se falliscono, potrebbero ritorcersi contro in modo spettacolare, accelerando proprio il futuro che gli Stati Uniti stanno cercando disperatamente di evitare. Il risultato probabilmente plasmerà la concorrenza USA-Cina e il futuro dell’ordine globale per i decenni a venire.»

Ovvio che gli Usa avvertano la concorrenza cinese come una minaccia al loro dominio. Scrive ancora Palmer: «[...] l’amministrazione Biden mira a bloccare la Cina dal futuro della tecnologia dei chip. Gli effetti andranno ben oltre il taglio dei progressi militari cinesi, minacciando anche la crescita economica e la leadership scientifica del Paese».

È uno scontro gigantesco di cui noi non siamo solo spettatori e tifosi per l’una o l’altra parte; un gioco, non solo commerciale, in cui siamo alleati di uno dei contendenti, ma non decidiamo niente. Tutto ciò avviene mentre disputiamo di concessioni balneari, licenze dei taxi, made in Italy e sceneggiate vergognose sui salari minimi.

(*) Solo una piccola manciata di aziende può competere a livelli d’avanguardia, dove le scoperte costano miliardi e decenni di ricerca. Il risultato è un settore strutturato come una serie di punti di strozzatura. L’esempio più noto è la macchina per la litografia a ultravioletti estremi (EUV) prodotta da ASML, un conglomerato manifatturiero olandese, che viene utilizzata per stampare gli strati di un chip.

La versione più recente della macchina può creare strutture fino a 10 nanometri; un globulo rosso umano, in confronto, ha un diametro di circa 7.000 nanometri. Utilizza un laser per creare un plasma 40 volte più caldo della superficie del sole, che emette luce ultravioletta estrema, invisibile all’occhio umano, che viene rifratta su un chip di silicio da una serie di specchi. Il laser proviene da un’azienda tedesca ed è costituito da 457.329 pezzi; un intero EUV ha più di 100.000 componenti di complessità simile. Un EUV è solo una parte del processo: una fabbrica all’avanguardia può includere più di 500 macchine e 1.000 passaggi.

giovedì 20 luglio 2023

Niente più caldo

 

In una foto scattata in una torrida giornata estiva, rivedo una domenica della mia infanzia, forse il giorno più caldo e soffocante di quell’estate priva dei refrigeranti odierni (salvo i ghiaccioli alla menta). La nonna quel giorno ci preparò per pranzo un brodo caldo e fumante. Alle nostre proteste di bimbi, la nonna rabboniva con questa frasetta: “brodetto caldo fa ben al stomegheto”. Non ho mai indagato a quale canto dantesco si riferisse la citazione.

In qualunque stagione, con qualsivoglia temperatura, la domenica era d’uopo il brodo di carne, a volte con tortellini, molto più spesso con della pastina anemica. Seguiva il rito del lesso, manzo marezzato e gallina grassa. Il nonno sedeva a capotavola, ovviamente, gli spettava la precedenza sul piatto di portata e l’esclusiva sull’osso con midollo. Gli altri adulti, muti, attendevano il proprio turno. A me, immancabilmente, spettava un’ala e la relativa pelle grinzosa. Pensa ai bimbi dell’Africa, mi diceva la zia con la sua dolcezza feroce. Il mio disgusto spiega la coscienza precoce sulla condizione dei più deboli e indifesi, costretti loro malgrado alle alette di pollo.

Radio Capodistria attendeva quel preciso e solenne momento conviviale per intonare bandiera rossa. Il ritornello diceva: “la trionferà!”. Seguivano, tra un boccone e l’altro, improperi irriferibili del nonno contro i politici democristiani. Finito il comizio e il pasto, gli adulti attendevano il caffè e il liberi tutti.

Estati afose e appiccicose, i fiumi in secca e temperature “anomale”, dicevano allora i giornali, anziani sofferenti e anche moribondi per il caldo eccessivo. Bevete spesso, ammonivano, nutritevi con minestre fredde di verdura. L’anguria veniva tenuta in fresco nelle cantine, nei pozzi o nei piccoli corsi d’acqua per le ore più belle della sera. Il gelato era una goduria, ma non era cosa frequente, la doccia un lusso e un bagno integrale non una consuetudine comune. Chi erano i fortunati che avevano un ventilatore di notte?

Non c’è d’avere troppe nostalgie di quelle estati roventi, anche s’è vero che sembravamo tutti più lieti e contenti, e peccato che Rin Tin Tin finiva a maggio. Il tubo dell’acqua in giardino era il nostro migliore amico. S’andava al mare in giardinetta, partendo all’alba, insonnoliti, approfittando del fresco. S’arrivava già sudati dopo oltre un’ora di andatura prudentissima e sbilenca a coprire 40 chilometri.

Oggi vedo quelle estati e la dimensione familiare atavica nelle loro verità: insopportabili. Più che rendermi conto di quanto è cambiato il clima, penso a quanto sono mutate le situazioni, il paesaggio (cemento e asfalto) e quale peso ha la trasformazione dei personaggi, le alienazioni reali.

A che età il grande caldo estivo divenne improvvisamente opprimente e quasi insopportabile? Non lo sappiamo più. Ma dall’oggi al domani avevamo bisogno di condizionatori d’aria a tutti i costi: uno al lavoro, almeno uno in casa e uno nell’auto. Niente più caldo. E però ancora ci si lagna.

Le riflessioni che hanno ad oggetto gli anni lontani, mai veramente separati da noi, liberano dai luoghi comuni e dagli stereotipi imposti uniformemente su esseri e cose, per cui insomma oggi proprio non riesco a stupirmi per una settimana di caldo bollente nel mese di luglio.

Un taglio netto

 

Si può immaginare che sia utile una persona che ripara un’auto, che cura un dente, che ripara un tubo che perde, che crea un software, un farmaco, che insegna qualcosa a scuola. Che cosa significa essere utili alla società? Che partecipi al mantenimento della società, alla soddisfazione dei suoi bisogni per oggetti e servizi che sono essi stessi utili (cibo, tram, metropolitane, turbine eoliche, sanità, istruzione, ecc.).

Immaginate invece dei parassiti che si accingono a fare un giro sullo schermo del loro computer per rubare ancora una volta una bella plusvalenza estorta dal sudore degli schiavi di tutto il mondo.

Non creano “ricchezza”, creano “valore”, che in gran parte esiste solo nei numeri dei loro computer. Si tratta di contratti che riguardano azioni e altri titoli che passano di mano, azioni il cui valore ha ormai poco o nulla a che fare con attività utili, oppure speculano sui tassi d’interesse, su variazioni valutarie generate da essi stessi, o ancora su contratti assicurativi che coprono i rischi creati dagli stessi speculatori (parassitismo all’ennesima potenza).

Presi singolarmente, questi parassiti di media e grossa taglia fanno il loro mestiere in un sistema che è quello che sappiamo essere. Senonché proprio questi cavedani (per usare un’espressione cara al figlio dell’ex presidente di Mediobanca) sono tra i più strenui oppositori del salario minimo a nove euro. Ritengono che il loro punto forte sia questo: quei nove euro sarebbero pari al 75% della mediana delle retribuzioni nazionali, mentre la prassi internazionale indica la soglia di equilibrio intorno al 60%. Oddio!

Basterebbe chiedere: i vostri redditi parassitari in quale rapporto stanno con la mediana delle retribuzioni nazionali? Sono arciconvinti, almeno nell’intimo, che la loro attività di mera speculazione finanziaria sia più preziosa e nobile del lavoro della loro colf.

Ad ogni modo, per non dimostrarmi troppo idealista e incline al disfattismo economico, prendo in considerazione il punto specifico: posto che i salari medi italiani sono ben al di sotto della media europea, basterebbe riportarli nella media aurea europea perché anche il salario minimo a nove euro risponda congruamente alla mediana della retribuzione nazionale.

Con quali denari sostenere questi aumenti? Tassando il capital gain al 50, 70, o al 90%. Dio non voglia, non si può. Allora, che fa lo stesso, con i denari spesi per mantenere i parassiti di ogni taglia, quelli che scrivono che i giovani non vogliono più lavorare e i salariati che vogliono andare in pensione dopo 40anni di lavoro sono degli stronzi sconsiderati. Lo Stato non può continuare a fare beneficienza. I salariati, invece, hanno la bacchetta magica per moltiplicare i profitti dei loro sfruttatori.

La nobiltà, classe parassitaria per eccellenza, riteneva di essere una classe sociale assolutamente indispensabile per il buon funzionamento della società. Dio stesso era chiaramente dalla loro parte. La borghesia, con un taglio netto, dimostrò a quelle teste di cazzo impolverate che avevano fatto il loro tempo.

mercoledì 19 luglio 2023

Può accadere troppo facilmente

 

Tucidide, generale e storico greco, nella sua Guerra del Peloponneso, ci racconta del conflitto tra Sparta (potenza dominante) e Atene (potenza emergente) per il predominio sulla Grecia. L’analogia che si può tracciare con l’oggi mi pare trasparente: Usa-Cina. Ma anche con situazioni di altre epoche: Roma e Cartagine, Spagna e Portogallo, Inghilterra e Olanda, Francia e Inghilterra e, più di recente, Germania da un lato e Gran Bretagna e Francia dall’altro, senza dimenticare la disputa tra gli Stati Uniti e il Giappone nel Pacifico.

Quando un potere in ascesa minaccia di spodestare un potere dominante, uno scontro violento è la regola, non l’eccezione.

Gli Stati Uniti hanno un problema con la Cina, che non è un problema con Xi Jinping, o con il “comunismo”, il mancato rispetto dei “diritti umani” e cose del genere. Così come avviene in natura, anche nella contesa tra imperialismi non c’è nessun anelito morale o altro principio che spinga alla lotta più della competizione per la supremazia. Gli Stati Uniti non possono dominare se un’altra potenza, desiderosa di dire la sua nel mondo, non si assoggetta alle loro regole.

Dopo cinquant’anni d’intesa tra Pechino e Washington (il riconoscimento di “una sola Cina”), un periodo caratterizzato sia dal trionfalismo unipolare americano sia dall’ascesa della Cina allo status di superpotenza economica, i due paesi sono ora in rotta di collisione. La guerra tra USA e Cina è inevitabile?

Il 23 marzo scorso, scrivevo: «Il duello Washington-Pechino, la “nuova guerra fredda”, è una rivalità globale, ci riguarda tutti, poiché ci trascina in un bipolarismo tanto ingiustificato quanto pericoloso. Ingiustificato perché non è, a differenza della vecchia guerra fredda, ideologico e sistemico; pericoloso perché porta non solo a maggiori incertezze ma a un conflitto aperto che ormai sembra difficile scongiurare (siamo prigionieri della “trappola di Tucidide”)».

Quando c’è sfiducia nei vertici politici, le visioni del mondo sono inconciliabili e quando ciascuna parte considera la propria leadership come preordinata, qualsiasi pretesto va bene. La questione di Taiwan, una collisione tra navi da guerra americane e cinesi nel Mar Cinese Meridionale, la disputa tra Cina e Giappone per delle isole su cui nessuno vuole vivere, l’instabilità nella Corea del Nord o la dirompente controversia economica potrebbero fornire la scintilla per una guerra tra Cina e Stati Uniti. Tutto ciò può accadere troppo facilmente.

C’è chi sostiene che l’equilibrio economico del potere si è inclinato a favore della Cina e che le pretese americane di preservare la propria egemonia sono irrealistiche. Altri sostengono che il Regno di Mezzo è minacciato non solo da nemici esterni, ma anche da una popolazione che invecchia, dunque da un’incombente catastrofe demografica e da un’economia vacillante che porterà la Cina verso il declino molto prima di quanto ci si attenda.

I vertici cinesi, consapevoli di questa tendenza, in previsione che la finestra di opportunità si chiuderà rapidamente, potrebbero decidere di forzare una mossa ora per perseguire i loro obiettivi (Taiwan innanzitutto). Pertanto, è questo il decennio in cui la competizione Usa- Cina toccherà il suo momento di massimo pericolo.

Quest’ultima ipotesi non mi convince, tuttavia sulla base di un insieme di condizioni ritengo il conflitto bellico probabile. Per quanto riguarda Pechino, si tratta di una combinazione di potere, necessità di prosperità e orgoglio nazionale per la civiltà cinese. Un Oriente in ascesa e un Occidente in declino è una tesi diventata (non senza ragioni) un articolo di fede all’interno del partito al potere. Per quanto riguarda Washington, la supremazia globale è semplicemente condizione per la sua sopravvivenza, anche come nazione.

Se gli Stati Uniti, in caso d’invasione cinese di Taiwan, reagissero con la forza militare ma poi perdessero la battaglia, segnerebbero la fine del secolo americano e del suo mito. Viceversa, in caso di sconfitta della Cina, ciò metterebbe fine al progetto del suo riscatto, quello di vendicare il “secolo di umiliazione”, dalla prima guerra dell’oppio alla fine della guerra civile cinese nel 1949.

Ecco perché sia per Pechino e sia per Washington potrebbe rivelarsi irresistibile l’intensificazione delle ostilità, senza esclusione di colpi. In tal caso, nella meno catastrofica delle ipotesi, vi sarebbero le principali città ridotte in cenere e decine di milioni di persone morte. Né Washington né Pechino sarebbero vincitrici.

Mentre l’ordine globale guidato dagli Stati Uniti appare sempre meno sostenibile, e la Cina continua ad accumulare influenza economica e politica, l’optimum sarebbe quello di correre rischi calcolati ed evitare quelli sconsiderati, tuttavia dobbiamo chiederci se oggi abbiamo leader mondiali di caratura tale da poter disinnescare le bombe geopolitiche che stanno per esplodere.

Per evitare una guerra evitabile c’è qualcosa che si chiama “concorrenza strategica gestita”. Implica una comunicazione stretta e continua tra Pechino e Washington per comprendere le reciproche “linee rosse” strategiche irriducibili, riducendo così la possibilità di conflitto a causa di incomprensioni o sorprese. Ma ciò che è accaduto con la Russia non depone a favore di una simile prospettiva.

Inoltre, in una visione globale inclusiva, con una concorrenza strategica gestita, entrambe le parti potrebbero incanalare i loro impulsi competitivi nell’economia, nella tecnologia e perfino verso obiettivi di cooperazione (nelle istituzioni internazionali, missioni spaziali, clima, epidemie, disarmo, ecc.). Janet Yellen, segretario al Tesoro, recentemente in Cina, ha dichiarato: “Crediamo che il mondo sia abbastanza grande perché entrambi i nostri paesi possano prosperare”. Solo che prosperare non è più l’unico obiettivo di nessuna delle due parti. E poi, prosperare sotto la guida di chi?

Washington, non comprendendo altro che un mondo a propria misura, troverà i modi per far accettare alla propria opinione pubblica e ai propri alleati un conflitto con la Cina presentandolo come inevitabile e necessario.