sabato 30 ottobre 2021

Perché il riformismo non può che fallire

 


In gergo queste "notizie" si chiamavano marchette.

Biden è arrivato a Roma, una colonna di ben 85 automezzi l’ha accompagnato in città. Neanche Cleopatra nel film di Mankiewicz.

Appena diventato presidente, Joe Biden aveva firmato un decreto sulla prevenzione delle discriminazioni basate sull’identità di genere o sull’orientamento sessuale. Gli atleti trans devono avere almeno un anno di trattamento ormonale per competere in una categoria femminile. Inoltre, dopo la bianchezza monolitica e l’assolutismo maschile dell’amministrazione Trump, Biden ha scelto un gabinetto di alti funzionari e consiglieri di impeccabile eterogeneità (c’è pure Rachel L. Levine, transgender). Sono riforme anche queste, ora la “sinistra” può stare tranquilla per quattro anni e rinviare la rivoluzione (?) a data da destinarsi. 

Invece per quanto riguarda il Build Back Better Plan, ovvero il pacchetto di misure per rilanciare l’economica e gli interventi infrastrutturali, proposto dal presidente Joe Biden e presentato giovedì scorso al caucus democratico della Camera (quasi 2.200 pagine, molte più di Guerra e pace), si tratta dell’espressione plastica delle pretese riformiste dell’amministrazione democratica e del Congresso controllato dai democratici. Nonostante tutta la grandiosa retorica sulla radicale legislazione sociale (abbassare il costo dell’assicurazione sanitaria, le spese scolastiche, ecc.), si tratta di 175 miliardi, meno di un quarto del bilancio militare annuale e meno di quanto è previsto dal Next Generation EU per l’Italia!

E dire che all’inizio erano 6.000 miliardi, poi ridotti a 3,5 trilioni, e ora bruscolini ripartiti su 10 anni. Ogni anno, la Federal Reserve immette nei mercati quasi 1.500 miliardi di dollari, quasi quanto la proposta di legge stanziata in dieci anni. Biden, così giovane, è già finito.

Non farà meglio di Obama. Nel 2008, nel contesto molto favorevole di una crisi che aveva visto Marx e Keynes sulle copertine delle riviste statunitensi, quando Main street (la vita reale) odiava Wall Street, che cosa ha fatto Obama? Fondamentalmente niente. Oltre 40 milioni di americani continuano a sbarcare il lunario con i food stamps.

Sul piano economico Obama non ha aumento il salario minimo, nulla per contrastare banche, finanza, speculazione, o le multinazionali che schiacciano i lavoratori, i fornitori e i concorrenti, pieno perseguimento del liberismo, lasciando fare alla concorrenza sleale di Messico e Cina, quest’ultima padrona d’agire e di depredare la proprietà intellettuale di altri paesi.

Non è stato per avverse congiunzioni astrali che i lavoratori del suo Paese sono caduti tra le braccia di Trump (il quale potrà anche sparire, ma non spariranno i suoi elettori). Barack è stato anche protagonista della sconfitta di Hillary, anche se tutti l’hanno dimenticato.

Oggi il premio Nobel per la pace (!) ha il sorriso smagliante e mostra gli addominali più belli del mondo (Putin invidioso), milioni di fans l’adorano, anche tra gli anziani (Dietlinde Gruber). Uomo di sinistra (come il suo amico Renzi), con numerosi domestici che lavorano nella sua enorme casa (il cui ingresso è più grande dei nostri appartamenti), i quali non possono pagare per mandare i figli agli studi, e dovranno lavorare fino alla morte per mancanza di una pensione dignitosa.

Quanto all’Affordable Care Act (Obamacare), basti ricordare che una dozzina di Stati, principalmente nel sud, hanno rifiutato i sussidi federali per l’estensione di Medicaid, e che la maggior parte dei piccoli datori di lavoro non offre copertura sanitaria, inoltre i lavoratori a basso reddito, in quegli Stati, hanno un forte disincentivo ad accettare lavori che aumenterebbero solo marginalmente i loro redditi, ma li renderebbero non idonei per Medicaid.

Come si può pensare che questo sistema economico sia riformabile? E quanto ci vogliono far credere gli Obama, i Biden, i Draghi e tutta la teppaglia politica e mediatica che li attornia, con sempre maggior insistenza a fronte di una crescente disillusione.

Prima di essere un sistema, il capitalismo è un problema, lo vediamo tutti i giorni. Ha bisogno di distinguere, nel reddito e nei consumi, i ricchi dai poveri, ossia di avere una larga fascia di popolazione disponibile a lavorare e sottomettersi. Non è casuale che ogni classe sociale non solo ha oggetti pensati per i suoi componenti, ma anche luoghi distinti dove acquistarli. Ci sono i jeans per i ricchi e altro tipo per i poveri. Se eccepisci che anche l’operaio può comprarsi i jeans da ricchi, che anche un senzatetto beve la stessa coca-cola di un magnate (ma non lo stesso Aberfeldy 1996), vuol dire che intellettualmente sei un miserabile.

È vero che il capitalismo maturo favorisce il benessere generale, i poveri non sono più totalmente indigenti, ma fin quando è funzionale al capitale stesso. Da decenni è in crisi a causa della saturazione dei bisogni, perché non compreremo una seconda lavatrice, una seconda o terza auto o un altro televisore (anche se ce li fanno cambiare spesso). Poiché la maggior parte dei bisogni è stata soddisfatta, ci sono solo oggetti inutili che devono essere resi indispensabili. Il dramma del capitalismo consiste nel dover inventare continuamente nuovi desideri per nuovi consumi. Non se ne esce con dei brodini caldi come quello proposto da Biden.

Quanto ai paesi dell’Europa quasi socialista, essi non sono più emittenti di moneta (una fortuna per l’Italia), ma solo utilizzatori di valuta, e dunque dipendono effettivamente dalle entrate fiscali o da ciò che i mercati finanziari sono disposti a prestare. E dunque se si vuole davvero ristabilire un certo equilibrio dei conti pubblici, offrire una parvenza di possibile riforma al sistema per poi ingannare meglio la gente, è indispensabile l’aumento effettivo delle tasse sugli alti redditi, le proprietà, i canoni demaniali, sulle donazioni e successioni (guai solo a parlarne). E invece s’è scelto di agire sulle tariffe, sui salari e le pensioni. Le disuguaglianze sono palpabili, quindi non si lamentino del successo della destra e dell’astensione al voto. In realtà ai padroni del mondo (quelli veri) non gliene frega niente dell’astensione, ciò che volevano l’hanno già ottenuto e non vogliono cedere neanche le briciole.


1 commento:

  1. Nella misura in cui l'astensione pone le basi del successo (elettorale) dei "riformisti", essa è vie più favorita dall'establishment (come ci insegna la democrazia americana). Qualche ubbia la può fornire, invece, la partecipazione al voto, quando il corpo elettorale si sforza votando stronzoli un po' divergenti dal sistema (vedasi Trump e, da noi, i cazzini dei pentastellati già inglobati dentro la "scatoletta di tonno"). Ma poi tutto torna alla normalità, ovvero alla cronicità di un sistema che non sa più quali maschere indossare per continuare la sua farsa.

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