martedì 16 febbraio 2021

Dacci oggi la nostra babele quotidiana

 

Comunicazione fa rima con monetizzazione. La questione è tutta qui. I padroni dei media sanno benissimo che l’istupidimento di massa è una cosa seria, e del resto non investono i propri denari per guadagnarsi la gratitudine delle masse o il paradiso. Il prodotto deve essere vendibile, deve soddisfare banalmente i bisogni dei telespettatori, deve generare appeal di ogni tipo.

Anche quando non sia ha nulla da dire, basta mezza frase, a volte una sola parola, per farla diventare un argomento. Per farne un oggetto, e dell’oggetto quello che si vuole. Esempi? Frasi evocative come “crisi di governo”, mistiche espressioni come “Recovery Plan”, l’acronimo “MES”, oppure, di questi tempi, la parola “lockdown”, “covid”, “vaccino”, sufficienti per dare inizio al “dibattito”, cioè allo spettacolo.

Rivolgendosi all’ospite televisivo, il giornalista chiede: “Lei che ne pensa?”. Inizia il contraddittorio con un altro ospite, entrambi volti noti ai telespettatori: giornalisti “autorevoli” o “esperti” di qualcosa, chiamati ad esprimere il proprio punto di vista. I partecipanti sono protagonisti di se stessi, hanno libertà in un recinto circoscritto, devono cioè assumere un comportamento conforme alla trasmissione, al cliché riconosciuto al singolo personaggio.

Si specula sul “bisogno” dell’utente di essere intrattenuto su qualcosa che è diventato l’argomento del momento, deprivando i fatti del proprio contenuto reale in nome del comunicabile. Nel momento in cui la disputa si fa più “interessante”, si manda la pubblicità, i cui introiti consentono al gioco di continuare, ammicca sornione chi conduce la manfrina.

Più in generale, la realtà viene parcellizzata ed etichettata spettacolarmente nelle diverse categorie del “bisogno” dell’utente: intrattenimento socio-politico, musicale, sportivo, filmico, storico, eccetera, e nelle altrettanto molteplici e gerarchizzate sottocategorie, secondo un modulo di riproduttività meccanica, che attinge all’orientamento ideologico, al livello d’istruzione e al gusto di chi crede di essere il decisore delle sue scelte riconosciute dal telecomando.

In realtà invece di scegliere si viene scelti, secondo ogni altra esperienza di carattere commerciale. Di fatto i telespettatori nell’insieme si distribuiscono tra le diverse offerte al modo in cui il saggio medio del profitto si livella tra i diversi capitali, ossia approssimativamente secondo l’investimento di ogni singola piattaforma televisiva.


4 commenti:

  1. È più conveniente fare delle inchieste o raccogliere in un salotto televisivo mezza dozzina di scimmie urlatrici? È meno rischioso porre domande scomode a chi ha qualche potere (o potrebbe averlo, prima o poi) o fare il maggiordomo di palazzo? Chi servono i media che vendono spazi pubblicitari? Ma soprattutto, a noi, cosa diavolo importa?

    RispondiElimina
  2. ''Rivolgendosi all’ospite televisivo, il giornalista chiede: “Lei che ne pensa? ''

    a volte dovrebbero avere il coraggio di dire: boh, vedremo

    RispondiElimina
  3. Il fatto è realtà: Vi è un istupidimento generale della popolazione, basta girare per gli uffici pubblici (e anche privati) e vedere come viene gestita (nell'era digitale) con quintali di carte inutili una qualsiasi pratica..

    RispondiElimina
  4. Questo post coglie proprio nel segno, nei salotti televisivi, i "giornalai" fanno "opinione di massa"; ma pur atteggiandosi a "pensatori liberi" non sanno di muoversi all'interno di un recinto precostituito, che loro stessi contribuiscono a costruire (spesso e volentieri non rendendosene conto).
    AG.

    RispondiElimina