venerdì 8 gennaio 2021

Sulle "diversità culturali estreme"

 

L’omologia tra la crisi che portò al declino dell’impero romano d’occidente e quella attuale è uno dei leitmotiv storici più frequentati. Bisognerebbe discutere su quanto questo parallelismo storico sia aderente e fondato e per quali aspetti invece non lo sia, ma lascio volentieri il compito a chi molto meglio di me se ne intende, cioè agli storici. Tuttavia ognuno di noi qualche idea su certi confronti tra passato e presente se la fa, pertinente o meno che sia.

Per esempio sull’immigrazione e la crisi demografica, temi che offrono molti spunti di riflessione tra l’antico e l’attualità. Il carattere economico e sociale della società antica favoriva l’immigrazione, anzi, imponeva una vera e propria importazione coatta di braccia, di forza-lavoro, vale a dire di schiavi. Fenomeno, a dire il vero, che è continuato anche dopo, per millenni.

In epoca più recente e anche nei nostri anni non è più necessario ricorrere a certe pratiche per importare forza-lavoro. È sufficiente creare le condizioni economiche per favorire l’immigrazione, cioè per arruolare nuovi schiavi volontari, per status, istruzione, utilità d’impiego.

Nell’antica Roma questo fenomeno assunse dimensioni importanti già in epoca repubblicana ed esplose con l’impero. È cosa nota che esercito e burocrazia a un certo punto furono costituiti in grande prevalenza da elementi “barbari” o quantomeno da provinciali (per l’esercito già prima, dopo Canne, arruolando schiavi cui attribuire poi la cittadinanza per far fronte alla minaccia costituita da Annibale).

Gli imperatori stessi cominciarono ad essere di provenienza provinciale, e di stirpe barbarica i comandanti dell’esercito (Ezio, Stilicone, ecc.), poi anche di oscura origine. L’elemento originale latino, per così dire, divenne sempre più raro. Come il meneghino a Milano ieri, solo che a sostituire il romano doc non furono italiani di Puglia, di Sicilia o del Veneto. Se nell’antico vi fu integrazione da parte degli immigrati nel nuovo ambiente, questa non assunse caratteristiche molto diverse da ciò che avviene oggi negli Usa e in Europa da parte soprattutto degli immigrati extraeuropei.

Il “presunto modello di convivenza plurale nella libertà che da sempre attrae e affascina il mondo” non esiste nei fatti oggi né poteva considerarsi possibile allora.

Questo motivo storico dell’immigrazione di per sé non determinò il declino e la caduta dell’impero d’occidente (le migrazioni sono sempre esistite), ma ne costituì senz’altro una delle premesse che si accompagnava con un altro motivo contingente di crisi, vale a dire il crollo demografico, che dall’età antonina si mutò in un vero e proprio suicidio demografico, con il dimezzamento della popolazione, complici anche le pandemie.

Sulle cause della glaciazione demografica di quell’epoca gli storici si sono divisi e disputeranno ancora a lungo. I motivi squisitamente economici, anzitutto, da valutare globalmente, a me paiono chiari ma non è questo il punto su cui mi soffermo ora.

C’è chi vede nel fenomeno dell’immigrazione una necessità, e ciò è in parte vero, e in un vantaggio per tutti, e ciò si rivela oggettivamente fuorviante per diversi motivi. Inoltre, la quotidianità di certi problemi che l’immigrazione sta creando sono ben presenti presso larghe fasce di popolazione, e non possono essere ignorati. Che poi il senso comune possa trasformare queste situazioni di difficoltà e di disagio in sofferenza e anche in aperta ostilità verso gli immigrati è una conseguenza.

Leggo dal blog di Mario Seminerio: «Oggi scopriamo che quel “federalismo”, fatto di diversità culturali estreme, ha in sé i germi dell’autodistruzione del sistema, nella misura in cui il comune denominatore della convivenza viene sottoposto a sollecitazioni violente come quelle dell’ultimo quadriennio, che giungono alla radicale delegittimazione degli altri gruppi sociali».

Ottimo. Il non ultimo motivo del persistere della separazione etnica, di apartheid sociale, che caratterizza le nostre società, generazione dopo generazione anche laddove si siano almeno in parte superate (o si sia tentato) le “diversità culturali estreme” (ho in mente soprattutto la situazione francese, che credo di conoscere meglio) è rintracciabile nel permanere e consolidarsi di un’estrema diversità di condizione economica, per cui non resta che trovare identità e comunità nel proprio gruppo etnico-sociale.

Parlare d’integrazione in una società di classe è un ossimoro. Non c’è osmosi tra una classe sociale e l’altra, se non come eccezione che conferma la regola (l’ascensore sociale che sfreccia è una metafora cara al classismo, come mette in rilievo anche Seminerio). Nell’ambito del sistema economico vigente il limite dell’emancipazione sociale, politica, razziale, eccetera, appare immediatamente nel fatto che non ci si può liberare effettivamente da tali limiti senza affrancarsi realmente dal giogo dei rapporti economici dati e dalle superfetazioni ideologiche che vi stanno attaccate come la carne all’osso.

Sia chiaro, con ciò non voglio negare il ruolo, pur importante, delle “diversità culturali estreme”. Non tutto può essere ricondotto esclusivamente a motivazioni economiche, perché ciò non è sufficiente a spiegare per esempio perché gli indiani (dell’India) vivono separatamente dai neri e gli ebrei chassidici non si mescolano con gli italo-americani. Dunque bisogna tener conto dei vari aspetti della questione, che ovviamente non si presta a riduzionismi di un tipo o dell’altro.


7 commenti:

  1. O.T: https://www.cleanenergywire.org/news/german-state-set-foundation-secure-work-nord-stream-2

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    1. molte grazie
      attenzione alle fonti, non sono sempre disinteressate e quasi sempre con le loro "rivelazioni" fanno il gioco di qualcuno

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    2. Ne terrò conto grazie!

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  2. Non so se quanto segue è perfettamente centrato con l'argomento del post, ma penso che ci vada vicino. Nel 1946, George Orwell, avendo letto James Burnham, scriveva: "Capitalism is disappearing, but Socialism is not replacing it. What is now arising is a new kind of planned, centralized society which will be neither capitalist nor, in any accepted sense of the word, democratic. The rulers of this new society will be the people who effectively control the means of production: that is, business executives, technicians, bureaucrats and soldiers, lumped together by Burnham under the name of ‘managers’. These people will eliminate the old capitalist class, crush the working class, and so organize society that all power and economic privilege remain in their own hands. Private property rights will be abolished, but common ownership will not be established. The new ‘managerial’ societies will not consist of a patchwork of small, independent states, but of great super-states grouped round the main industrial centres in Europe, Asia, and America. These super-states will fight among themselves for possession of the remaining uncaptured portions of the earth, but will probably be unable to conquer one another completely. Internally, each society will be hierarchical, with an aristocracy of talent at the top and a mass of semi-slaves at the bottom" Ricordo che Burnham è un autore americano piuttosto right-wing, fra i primi a parlare di tecnocrazia. Fu letto con attenzione anche da John Kenneth Galbraith. Galbraith non è granché di moda, ma Orwell lo è, e tanto, e lo sarà sempre di più. Naturalmente il passaggio sulla proprietà privata che cambia di natura non è, per ora, una previsione verificabile. Ma il resto prefigura una classe di manager-burocrati-intellettuali sedicenti desinistra che puntano al potere, ed è previsione corretta. Più sotto, si forma una indistinta classe di semischiavi, o schiavi tout-court.

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    1. Non sapevo, mi studio la questione con calma domani. Grazie (pensavo fossi in montagna a sciare)

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    2. Figuriamoci. Sciare. Senza impianti di risalita.
      Piuttosto, se non conosci James Burnham avrai la sorpresa di scoprirlo ex trozkista. Dicono anche che il suo testo più noto, The Managerial Revolution, è scopiazzato da "La burocratizzazione del mondo", di Bruno Rizzi. C'è anche chi sostiene che Orwell si ispirò direttamente a Rizzi per scrivere 1984.

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    3. Rizzi è stata una delle mie prime letture su quel versante. lo lessi in treno durante un lungo viaggio. quando scesi avevo una fame orribile, ma non c'era un buco aperto. quasi 1/2 secolo fa.

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