lunedì 4 gennaio 2021

Noterelle a margine di una recensione

 

Il 31 dicembre scorso, avevo accennato, in nota ad un post, alla Modern Monetary Theory. Il 2 gennaio, è comparso sul quotidiano Il Foglio una recensione al libro di Stephanie Kelton, Il Mito del Deficit, Fazi Editore.

L’autrice del libro recensito è una sostenitrice dei principi essenziali della Modern Monetary Theory (MMT). L’articolo, a firma di Alberto Bisin, ha per titolo: La Modern Monetary Theory non è una “teoria” e non è “moderna”.

Bisin ha ragione nel sostenere che la MMT non è una teoria, ed in effetti è solo un vecchio sogno che emerge in periodi di crisi economica e sociale. Per i non addetti a questo genere di faccende, la recensione di Bisin potrebbe apparire ostica (in effetti non è nemmeno brillantissima), perciò di seguito cercherò di offrire un sintetico resoconto della posizione della Kelton e una mia critica ad essa da un punto di vista marxista.

Tutte queste teorie, compresa la MMT che risale a quella di Proudhon e dei suoi seguaci, quella di C.H. Douglas del credito sociale, poi Keynes e Piketty, e altri deficienti, preludono a una prospettiva politica molto definita. Sostengono che le crisi non derivano dalle contraddizioni intrinseche del capitalismo, ma possono essere superate attraverso un cambiamento nelle politiche di governo e lo sviluppo di un nuovo sistema monetario e fiscale, permettendoci d’investire in sanità, istruzione e infrastrutture.

Infatti, anche secondo Kelton le crisi del modo di produzione capitalistico non derivano dalle contraddizioni intrinseche, radicate nella produzione di merci e nello sfruttamento della forza-lavoro, ma da politiche sbagliate che possono essere superate attraverso “una nuova politica e una nuova economia”, permettendoci di vedere che “un altro modello di mondo è possibile, in cui possiamo permetterci di investire in sanità, istruzione e infrastrutture resilienti“.

In buona sostanza le politiche economiche che danno priorità ai bisogni umani e all’interesse pubblico sarebbero possibili all’interno del capitalismo se solo “i nostri vincoli [monetari] autoimposti” venissero abbandonati.

Questi vincoli, sostiene, derivano dal modo in cui la spesa pubblica è vista ed equiparata alla spesa delle famiglie. Una famiglia deve acquisire denaro per finanziare le proprie spese e deve pareggiare il proprio bilancio. Il governo, invece, è l’emittente di denaro e non è soggetto a tali vincoli.

Una famiglia non può creare denaro ex nihilo per finanziare le proprie spese, ma il governo può farlo. Ciò significa che i limiti di spesa di una famiglia non si applicano a un governo sovrano che emette la propria valuta, il quale può finanziare le sue spese stampando più denaro o crearlo premendo un pulsante del computer presso la Federal Reserve che trasferisce denaro dalla banca centrale a un altro conto bancario.

È l’uovo di Colombo!

La MMT, a cui s’ispira l’autrice del saggio, non sostiene tuttavia che non vi siano limiti a tale spesa, ma che essi non sono determinati da vincoli finanziari. Essi sorgono solo quando tutte le risorse disponibili dell’economia reale sono pienamente utilizzate e ulteriori richieste su di esse, derivanti dalla spesa pubblica, vanno oltre la capacità dell’economia, portando così all’inflazione. Ma fino a quel momento molti problemi sociali, economici e persino ecologici, come il cambiamento climatico, possono essere affrontati e risolti semplicemente stampando denaro e creando credito.

È il caso di sorvolare, in questa sede, sulla tesi del pieno impiego delle risorse economiche e simili baggianate in regime capitalistico. Seguiamo la Kelton sulla faccenda della creazione della moneta a comando, che è divertimento puro.

Vero è che il Tesoro degli Stati Uniti, forte del ruolo che il dollaro ha come valuta globale del mondo, gode d’una capacità apparentemente illimitata di creare dollari.

Kelton però afferma che anche altri paesi, in quanto emittenti della propria valuta, come Regno Unito, Australia e Canada, possono fare la stessa cosa, e ciò vale anche per paesi con poca o nessuna sovranità monetaria come Panama, Tunisia, Grecia, Venezuela e molti altri.

Anche a un’analisi superficiale emerge la falsità di questa concezione. Le valute di altri paesi non godono la stessa posizione del dollaro USA. Se, ad esempio, il Regno Unito o l’Australia, per non parlare di paesi come l’Argentina o il Venezuela, dovessero creare illimitatamente moneta, scoprirebbero molto rapidamente che il valore della loro valuta crollerebbe presso i mercati, generando inflazione e minando la loro capacità di rimborsare i debiti denominati in dollari USA.

Inoltre, nonostante il ruolo privilegiato del dollaro USA, ci sono anche limiti intrinseci alla creazione di dollari da parte della Fed statunitense, che derivano dalla natura stessa del denaro.

E qui si aprirebbe un altro discorso, ma il lettore ha già faticato per arrivare (forse) fin qui. Basti ricordare che gli economisti, scriveva Marx, sostengono che le persone ripongono fiducia in una cosa, il denaro, perché non si fidano l’una dell’altra. “Ma perché hanno fede in quella cosa? Ovviamente perché quella cosa è una relazione oggettivata tra persone; perché è valore di scambio oggettivato e il valore di scambio non è altro che il rapporto tra le attività produttive delle persone”.

Marx sollevava quella che era e resta la questione fondamentale: i rapporti di produzione esistenti e i rapporti di distribuzione ad essi corrispondenti possono essere rivoluzionati da un cambiamento nello strumento della circolazione e dunque senza toccare i rapporti di produzione esistenti e le relazioni sociali che si basano su di essi?

Oppure si tratta, come scrisse Marx, di abolire il Papa senza farla finita con la Chiesa cattolica.

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