sabato 20 ottobre 2018

Il nodo vero della questione sociale



L’Italia è un paese ricco? Lasciamo da parte il celeberrimo e paradossale aforisma di Trilussa a riguardo del “pollo” statistico, concentriamoci sui numeri assoluti. Ebbene sì, l’Italia è un paese ricco, non solo perché è la seconda manifattura continentale, e ciò nonostante gli sforzi contrari della sua classe politica passata e vigente, ma perché la sua ricchezza è stimata in circa il 6 per cento di quella mondiale, pur con una popolazione inferiore all’1 per cento del totale globale. Per giunta quel 6 per cento non tiene conto del cospicuo patrimonio “nascosto” (non solo nell’accezione di “occultato”).

Un paese, l’Italia, che fino ad anni recenti o epoche relativamente recenti era povero, anzi tra i più poveri dell’Occidente. Paese dal quale nel primo mezzo secolo dall’unità nazionale emigrò circa un terzo della popolazione. Non solo dal centro-sud, si emigrava massicciamente anche da regioni del nord che oggi sono considerate tra le più ricche d’Europa e dunque del mondo.

Oggi fame e miseria, in generale e nei paesi di più antica industrializzazione, non sono più gli stessi delle epoche del passato, anche se la povertà non può più essere misurata con gli stessi parametri di un tempo. E che le povertà (al plurale) siano in crescita, non c’è dubbio, anche se sono tante le persone che, soggette invero a cattiva alimentazione, la fame se la impongono di tanto in tanto con diete e digiuni, come forma di “purificazione”. Del resto le credenze religiose hanno sempre avuto un rapporto molto stretto con i digiuni, e a quanto riuscivano a farci fare i sedicenti emissari di un dio, ora provvedono i dietisti e i pubblicitari.


Siamo tornati ad emigrare, non solo in quantità di braccia, ma anche in qualità di competenze (quelli che la pubblicistica borghese chiama “cervelli”). Da noi, i gradini più bassi della scala sociale vengono occupati da foresti, cioè da forza-lavoro comprata a prezzi stracciati, e dunque i nostri giovani preferiscono fare i camerieri e i gelatai a Londra o Monaco di Baviera. Anche quelli con una laurea da spendere, in non rari casi non se la passano meglio. Poi, con un diplomino o la licenza media si arriva a spendere tra i 25 e i 50 mila euro per comprare da dei truffatori le risposte ai quiz concorsuali dove ai vincitori viene data una divisa da carabiniere o da mercenario.

Per il futuro non c’è da aspettarsi di meglio, anzi, la ricchezza si concentrerà sempre più in poche mani, la classe media si assottiglierà sempre più, la povertà assoluta e relativa interesserà strati sociali sempre più vasti, con o senza sussidi, con o senza food stamps. I famosi “due poli” marxiani di ricchezza inusitata e povertà crescente, che ci eravamo quasi dimenticati!

Tutto ciò non è solo causa delle nuove tecnologie, le quali sono introdotte per risparmiare lavoro, ma del fatto che a fronte dell’enorme aumento della produttività del lavoro (checché ne dicano i megafoni del capitale) il singolo operaio continua a lavorare con l’orario di prima. I megafoni di cui sopra obiettano che altri paesi se la cavano meglio. È vero, per ragioni di forza economica, di posizione internazionale, di qualità della propria classe dirigente, di organizzazione sociale, di mentalità. Però in ultima analisi si tratta dell’uso capitalistico che viene fatto delle tecnologie.

Questo è il nodo vero della questione sociale, e cioè il fatto sempre più incontrovertibile che questo sistema economico non è più compatibile con il presente e con il domani della società. Sarà la necessità a spingerci oltre, ma essa da sola non basta a far nascere il nuovo.  Verso una società senza classi, verso il paradiso in terra? Un noto adepto della mia stessa “religione” ebbe a dire che senza contraddizione non c’è vita. Su questo non ci piove. Che però una società migliore e più giusta dell’attuale rientri nel novero delle possibilità, sarebbe da sciocchi negarlo a priori (leggi qui).

La dialettica materialista, la dialettica senza dogma, non è una religione, ma una bussola per individuare una direzione possibile; tuttavia non possiamo pretendere che essa ci preannunci in dettaglio che cosa troveremo nel domani o quali e quanti ostacoli incontreremo lungo il cammino. Il quale non sarà, questo invece lo sappiamo, né lineare e né immune da agguati di ogni tipo. Sempre che non si decida di tirare avanti sulla strada del profitto per il profitto e rendere con ciò inabitabile questo pianeta alla specie umana.



4 commenti:

  1. Trovo più religiosi quegli operai che di fronte a certe evidenze (stesso orario di lavoro da quasi un secolo) preferiscono consolarsi con l'individualismo nichilista di quei gran figli di puttana alto borghesi con tendenze parafasciste.

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  2. ah la tecnologia non c'entra nulla? Prendiamo l'esempio dei bancari, per comodità. Di quanto s'è ridotto il loro numero in vent'anni? Non solo la globalizzazione, il problema vero, centrale, dell'oggi e del domani è dato dal fatto che al capitale serve sempre meno lavoro vivo.
    Se si riducesse, non solo a livello locale, la giornata lavorativa della metà quanti posti di lavoro verrebbero a crearsi?
    Certo, la globalizzazione aggrava notevolmente il problema, su questo non ci piove. Guardiamo però la cosa, appunto, globalmente e in prospettiva. La vera sfida è data dal sempre più sfavorevole rapporto tra capitale costante e capitale variabile.
    Di italiani che vanno a lavorare in Vietnam o anche solo in Polonia ne vedo pochini.
    grazie del commento e saluti

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  3. paese povero abitato da ricchi

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