Nel capitalismo le difficoltà di
valorizzazione si manifestano periodicamente attraverso crisi cicliche che
diventano sempre più ravvicinate mano a mano che muta il rapporto tra la parte
variabile e quella costante del capitale. Si giunge così ad una
diminuzione del saggio generale del profitto, poiché il plusvalore cresce
sempre meno del capitale complessivo. Tecnicamente quando il profitto sociale
non è in grado di far fare al capitale il necessario salto di composizione
organica (vedi qui).
Si ha dunque crisi di sovrapproduzione, anzitutto di capitale, per quanto la sovrapproduzione di
capitale determini sempre quella di merci.
Il concetto di sovrapproduzione di capitale,
scaturendo prima di tutto dal processo di produzione, mostra – come dice Marx –
in che modo “il vero limite della produzione capitalistica è il capitale
stesso” e come la crisi scaturisca “dalla natura stessa della produzione capitalistica, come necessità logica”.
Lo sviluppo
logico delle categorie economiche dimostra il carattere storico del sistema
capitalistico, e ciò significa, tra l’altro, che la crisi di sovrapproduzione è
un fenomeno tipico del capitalismo. E tuttavia il limite che segna l’arresto
dell’accumulazione e, di conseguenza, il destino del modo di produzione
capitalistico, nella realtà concreta non coincide con il “crollo spontaneo” o
automatico del capitalismo. E non solo perché l’istante limite del modello è un istante logico e non immediatamente
storico, ma anche perché il
movimento reale è più complesso, multiforme e variegato del movimento
concettuale che ne riflette le leggi, tanto è vero – come dice Lenin –
che “il fenomeno è più ricco della legge”.
Le contraddizioni operano all’interno delle leggi del
modo di produzione capitalistico, e giungono a maturazione (massima
divaricazione) nella fase della sua crisi generale-storica. Questo processo
crea le condizioni materiali a un nuovo modo di produzione, del quale, partendo
da dati oggettivamente già presenti e in divenire, possiamo inferire le
dinamiche più generali a riguardo del futuro. Si pensi, per esempio, al fatto
che la tecnologia sempre più sostituisce il lavoro vivo, che la concentrazione
e centralizzazione dei capitali favorisce sempre più il monopolio a scapito
della “proprietà privata” dei mezzi di produzione, quindi gli effetti dell'enorme indebitamento degli Stati, il fallimento del riformismo e il riaffacciarsi di "nostalgie". Eccetera.
*
Tutto ciò non ci autorizza ad immaginare futuri
scenari irenici o paradisiaci per l’umanità. Bisogna tener presente, come scrive Engels, che «il mondo non deve essere concepito
come un complesso di cose compiute, ma come un complesso di processi, in cui le cose in apparenza stabili,
non meno dei loro riflessi intellettuali nella nostra testa, i concetti, attraversano un ininterrotto processo di
origine e di decadenza, attraverso il quale, malgrado tutte le apparenti
casualità e malgrado ogni regresso momentaneo, si realizza, alla fine, un
progresso continuo».
È un fatto che l’umanità è passata dalla pietra
focaia alle centrali nucleari, dalla fionda ai missili balistici, dal baratto
alle carte di credito, dalle palafitte al Burj Khalifa di Dubai, eccetera. Non
è stato un processo di sviluppo lineare e sempre positivo, tutt’altro, ma malgrado ogni regresso momentaneo vi è
stato un progresso continuo. Tuttavia non esiste nulla di assoluto, tale
progresso non solo può essere soggetto a regresso momentaneo, ma anche ad arrestarsi per sempre ponendo fine all’umanità se essa non saprà controllare i potenti mezzi di distruzione che essa oggi possiede, se sarà
incapace di indirizzare e limitare il proprio sviluppo in accordo con le leggi della
natura, ossia con il ricambio della natura stessa.
La “filosofia dialettica”, scrive Engels, dissolve
tutte le nozioni di verità assoluta, definitiva. “Non vi è nulla di definitivo,
di assoluto, di sacro; di tutte le cose e in tutte le cose essa mostra la
caducità, e null’altro esiste per essa all’infuori del processo ininterrotto
del divenire e del perire, dell’ascensione senza fine dal più basso al più
alto, di cui essa stessa non è che il riflesso nel cervello pensante”. La
dialettica hegeliana – precisa Engels – ha però anche un lato conservatore: “essa
giustifica determinate tappe della conoscenza e della società per il loro tempo
e per le loro circostanze, ma non va più in là. Il carattere conservatore di
questa concezione è relativo, il suo
carattere rivoluzionario è assoluto: il solo assoluto ch’essa ammetta”.
Vorrei citare un altro passo di Engels, questo tratto
dalla Dialettica della natura: “Gli scienziati possono prendere l’atteggiamento
che credono: essi sono sotto il dominio della filosofia. C’è da porre solo il
problema se essi vogliono essere dominati da una cattiva filosofia corrente o
da una forma di pensiero teorico che riposa sulla conoscenza della storia del
pensiero e sui suoi risultati. Gli scienziati fanno ancora condurre alla
filosofia una vita stentata e puramente apparente, servendosi dei rifiuti della
vecchia metafisica. Solo quando la scienza della natura e della storia avrà
assorbito in sé la dialettica, tutto il ciarpame filosofico – esclusa la pura
teoria del pensiero – diventerà superfluo, si risolverà nella scienza
positiva”.
A queste parole di Engels si dà spesso un senso
positivistico, ossia che l’importante sarebbero soltanto le nostre conoscenze
positive della realtà, che tutte le generalizzazioni ulteriori non servirebbero
da prova scientifica e non avrebbero valore per lo sviluppo della scienza. Ma
questa interpretazione positivistica non si può accordare con ciò che Engels
dice sull’importanza che per l’attività creativa degli uomini ha il divenire
cosciente del pensiero dialettico nelle loro menti. Infatti il divenire
cosciente della dialettica significa proprio, tra l’altro, la liberazione del
nostro pensiero dalla limitatezza del “pensiero specialistico”.
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