È un ristoro per la mente leggere un libro del grande
maestro che risponde al nome di Peter Brown. Il titolo originale, Through the eye of a needle, che Einaudi
traduce correttamente con Per la cruna di
un ago, rimanda al celebre versetto evangelico che tutti conosciamo e che
fin da piccoli ci ha tolto il sonno: era fin troppo evidente che un cammello
non poteva infilarsi nell’occhiello di un ago, che semmai sarebbe stato
necessario un ago gigantesco o viceversa un cammello microscopico. E perché mai
un cammello sarebbe stato interessato ad attraversare proprio quel forellino? Si
poteva eccepire in sede catechistica che Marco e Luca sostenevano una cazzata?
Ognuno coltivava il proprio dubbio per sé.
Poi, quasi adulti, venimmo a sapere che probabilmente
questa paradossale iperbole era dovuta a un errore di traduzione, laddove la
parola aramaica gamal può significare sia “cammello” e sia “corda”. La
spiegazione veniva accolta con un gran sospiro di sollievo, non se ne poteva
più di trattenere in corpo un simile dubbio. Il presunto traduttore greco
avrebbe quindi semplicemente scelto il senso sbagliato del termine,
trasformando l'iperbole moderata di una corda che si tenta invano di infilare
nella cruna di un ago nell'iperbole estrema del cammello contorsionista che ci
ha impressionato da bambini. Non sapremo mai con certezza se sia andata così,
certo è che l’iperbole del cammello ha sortito un successo clamoroso rispetto all’eventuale
versione con canapo o corda (*).
Brown, ben avveduto, si ferma alla cruna dell’ago, ma
per l’Einaudi non basta, deve metterci del suo, se non altro per completezza. Si
sa mai che quella volta a catechismo qualcuno fosse assente causa scarlattina. Nella
sovraccoperta scrive in grandi caratteri da oculista: “Gesù insegnò ai suoi
seguaci che è più facile che un cammello entri per la cruna di un ago, che un
ricco nel regno di Dio”. Gesuiti si nasce, ed essi lo nacquero.
Ad ogni buon conto, a pagina 677, Brown racconta un
episodio storico che stuzzica e premia la curiosità del lettore. Ci racconta di
uno scisma memorabile che vide protagonisti da un lato papa Simmaco (498-514) e
dall’altro tale Laurenzio, un ecclesiastico non meno scafato. Il conflitto tra
Simmaco e Laurenzio portò a una spaventosa guerra tra bande durata quattro
anni. Nelle strade della città – scrive Brown – si susseguivano scontri armati
tra le fazioni rivali, che portavano spesso all’uccisione dei preti più in
vista di ciascun schieramento.
A fare da sfondo a questo scisma – precisa Brown – vi
era una Roma ormai disgregata in una vacillante confederazione di quartieri. La
città era punteggiata di isole in cui gruppi di eleganti edifici, sia
ecclesiastici sia aristocratici (siamo ben dopo il sacco di Alarico del 410 e
quello di Genserico del 455, a conferma di quanto sostenevo nel post di
domenica scorsa, sebbene prima della guerra gotica e dell’assedio di Totila del
546), spiccavano in mezzo a un paesaggio urbano tentacolare e degradato. Queste
isole di residenze ben curate – prosegue Brown – costituivano le basi del
potere dei rappresentanti rivali del clero e dei loro alleati laici. La tenace
opposizione a papa Simmaco da parte dei prelati che sostenevano Laurenzio
dimostra quanto fosse impossibile dare per scontato il controllo che un vescovo
era in grado di esercitare sul proprio clero (soggiungo: mutatis mutandis, la
situazione complessiva non era molto diversa da oggi, fatta forse eccezione per
le famose buche stradali).
In situazioni del genere, ieri come sempre, la chiave
del potere, in tal caso episcopale, era il denaro. Simmaco – racconta Brown
– superò la tempesta perché si dimostrò in grado di flettere a proprio
vantaggio il muscolo finanziario della ricchezza della chiesa. Sembra che i
preti a lui fedeli ricevessero paghe tre volte superiori a quelle dei preti
alleati con l’avversario. Come dominus
della ricchezza della sua chiesa, Simmaco riuscì a imporsi come dominus delle chiese di Roma.
Considerazione: la chiesa ci ha sempre presentato un
aspetto paradossale della propria ricchezza: la sua non è da considerarsi come
la ricchezza di un qualsiasi altro plutocrate, essa è una ricchezza di cui la
chiesa non è proprietaria ma soltanto la gerente, e l’amministra in nome di
coloro che non possiedono nulla, vale a dire i poveri. La chiesa è un non
proprietario che presiede un cospicuo patrimonio di non persone! È sempre lei
che decide chi può passare per la cruna di un ago.
(*) Ritengo questa spiegazione molto comoda ma
improbabile: Chi può far passare un elefante per la cruna di un ago? (Talmud
Babilonese, Baba Mezi’a 38b).
salve, ma non va dimenticato un detto siciliano: "cu sparte ave a megghiu parte". Che spiega il nepotismo del passato della Chiesa, e il alto affaristico attuale. Per ora sommerso ma che di tanto in tanto emerge.
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