Vivremo tempi interessanti? Non ho dubbi, basterà non
tirare le cuoia prima d’allora. Di tempi interessanti ne ho già vissuti alcuni,
quasi tutti d’autunno. Ricordo sopraggiungere improvvisa e incredibile la
nebbia che in rapidi banchi ci avvolse nel tardo pomeriggio dell’ultimo giorno
di mare. Fu quello uno dei momenti più malinconici della mia prima giovinezza. Del
resto accadeva nella stessa spiaggia, a pochi passi, dove meno di un decennio
dopo Visconti girerà Morte a Venezia. E che la città stesse morendo era un dato
di fatto conclamato dall’esodo inesorabile dei suoi abitanti verso la
terraferma, dei quali noi non fummo i primi ma nemmeno tra gli ultimi.
Venezia restaurata, resa asettica alla patina del
tempo, turistica, non sarebbe più stata la stessa. Ciò avvenne ben prima della
realizzazione dell’opera pubblica più demenziale della sua storia, il “mose”;
ben prima del passaggio delle grandi navi da 115mila tonnellate. Anche negli
anni Sessanta transitava nel canale della Giudecca una grande nave, la Cristoforo Colombo, gemella della
sfortunata Andrea Doria. La stessa che portò in Italia, tra gli altri, l’esule
cubano Alvar González-Palacios. Appunto, una sola grande nave, di nemmeno
30mila tonnellate di stazza lorda, una barchetta a confronto dei giganti di
oggi che innumerevoli e settimanalmente transitano per lo stesso canale. La
Colombo attraccava comodamente al molo delle Zattere, davanti alla sede della Società
adriatica di navigazione (mi pare si chiamasse così) e al consolato di Francia (a
tale riguardo rammento una veridica liaison
dangereus tra la silfide francese, moglie del giovane console, e … ).
Pochi giorni dopo tornammo a scuola e con grande
sorpresa vedemmo sostituiti i nostri vecchi banchi di legno con dei nuovi
piccoli banchi in formica e ferro. Ognuno aveva assegnato il suo con una
piccola sedia, non si stava più in batteria come prima. Non più calamai,
pennini, carte assorbenti, dita imbrattate, ma ognuno di noi faceva sfoggio di
una fiammante Bic. Solo il nostro maestro continuava a scrivere con la sua
grossa stilografica. E però anche lui si era dotato di una lunga penna a sfera,
bicolore, da un lato rossa e dall’altro blu. Incuriosiva e inquietava.
Col senno di poi posso dire che quel pur modesto
cambiamento segnava non solo la fine del dopoguerra ma di un’epoca intera. Si
era aperta una nuova stagione, di riforme e di benessere diffuso, almeno così
sembrava.
In quei giorni, ad Istanbul, un addetto militare italiano, del quale nessun libro di storia riporta il nome,
fotografava delle navi di passaggio. Non tutte, solo quelle russe. Sul ponte delle
navi si vedevano dei grandi e strani involucri. Che cosa celavano? Il sospetto
fu tale che le foto furono mandate a Roma e da qui trasmesse oltre Atlantico per
il semplice motivo che quelle navi sovietiche erano dirette in una delle isole
dell’arcipelago dei Caraibi. Fu così che incominciarono i voli di ricognizione
su Cuba. Le riprese aeree confermarono i sospetti. Scoppiò la “crisi dei
missili”, che portò ad un passo da una nuova guerra mondiale.
L’anno dopo, sempre all’inizio della scuola (aprivano
il primo ottobre, san Remigio, ed era già festa nazionale il quattro, san
Francesco, patrono d’Italia) giunse la notizia della strage del Vajont. Conoscevo
alcuni luoghi del Cadore, ma non Longarone e gli altri paesi distrutti. Ci
andammo alla fine dell’estate successiva. Si presentò davanti ai nostri occhi
un’immensa spianata, che incredibilmente e improvvisamente s’interrompeva sul
primissimo tratto della montagna ove erano rimaste intatte delle vecchie case. Affacciata
a una finestra, un’anziana signora raccontò a noi l’Apocalisse vissuta.
Visitammo il cimitero approntato per la sepoltura delle vittime. Si disse
allora ch’era provvisorio. Come tutto in questo straordinario e tragico paese.
Poche settimane ancora da quell’evento e la
televisione mostrò insistentemente un oggetto che destò in me grande curiosità:
un fucile. Seppi poi che si trattava di un Carcano modificato al quale era
stato applicato, sul genere “fai da te”, un cannocchiale. Bastò quel vecchio
fucile italiano acquistato per corrispondenza per cambiare il corso della
storia, quanto meno quella degli Stati Uniti d’America. Così si disse, e non
c’è motivo di dubitare che sua maestà il caso, unitamente a un buon addestramento
nei marines, abbia fatto tutto da solo.
Tre anni dopo facevo le medie e cominciò a piovere
ininterrottamente per giorni, mentre da sud soffiava lo scirocco. Una notte ci
svegliò l’ululato delle sirene, per via dell’acqua alta, mentre al Lido il mare
in burrasca si stava mangiando la spiaggia. Fu quasi nulla a confronto di
quanto stava accadendo a Firenze. Ma questa vicenda è suppergiù molto nota. Di
ciò che invece accadde tre anni dopo ancora, invece, che cosa sappiamo, a chi importa più? Ci pensa Paolo Mieli a raccontarcela come piace a lui.
E tu un racconto così emozionante vorresti che lo continuasse Mieli? Non riesco proprio a immaginare quale potrebbe essere la conclusione.
RispondiEliminaIl MOSE non è realizzato, e io vorrei che lo fosse.
RispondiElimina12/12/1969:fine della democrazia. Inizio della strategia della tensione.
RispondiEliminail 13 dicembre non c'era meno democrazia di prima. se non avessero funzionato le bombe ci sarebbero stati i colonnelli. in piena logica dei blocchi.
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