sabato 27 ottobre 2018

Soltanto mediante un’analisi delle circostanze empiriche date


Yann Le Bohec ha scritto Spartaco, signore della guerra, Carocci. Tra le altre perle vi si legge questa:

«Spartaco guidò un «movimento sociale», ma è «poco probabile» che volesse «intraprendere una lotta di classe», perché «non avevano certo letto Karl Marx».

E già, perché è noto che sia stato Marx l’inventore, proprio così, della lotta di classe. No Marx? no party.

Prima di Spartaco (109-71), nei domini di Roma, le rivolte degli schiavi furono numerose: a partire dal 217, poi nel 199, nel 196, nel 185. Nel 185, ad Apulia, circa 7.000 schiavi furono giustiziati durante la repressione che seguì la loro rivolta.

In una lettera a Engels del 27 febbraio 1861, a proposito di Spartaco, Marx scrive:

«[…] alla sera per sollievo [leggo] le guerre civili romane di Appiano nel testo greco originale. Libro di grande valore. Costui è un egiziano dalla testa ai piedi. [Friedrich Christoph] Schlosser afferma che “non ha anima”, probabilmente perché sviscera fino in fondo le cause materiali di queste guerre civili. Spartaco vi figura come il tipo più in gamba che ci sia posto sotto gli occhi da tutta la storia antica. Grande generale (non un Garibaldi), carattere nobile, rappresentante reale dell’antico proletariato» (XLI, 176).

La questione va posta in modo diverso, cioè va chiarito perché le lotte di classe possono avere successo (quella della borghesia contro l’ancien régime) oppure possono fallire.

Le Bohec dimentica che la vittoria politica degli schiavi, sempre che questa ipotesi abbia mai avuto un senso, non avrebbe rimesso in causa i rapporti di produzione né modificato le forme di proprietà. Le rivolte degli schiavi anche se avessero assunto un carattere di lotta politica organizzata, esse sarebbero rimaste comunque senza prospettive, non potendo sboccare in una trasformazione del sistema sociale di produzione, poiché le contraddizioni che, sviluppandosi in profondità, opponevano le forze produttive ai rapporti di produzione e mettevano in causa la loro corrispondenza necessaria, non si trovavano interamente espresse nell’antagonismo tra gli schiavi e i loro padroni.

Nel presente, invece, le cose stanno diversamente. Le contraddizioni di classe che oppongono, sul piano socio-politico, gli schiavi moderni ai capitalisti corrispondono alle contraddizioni che, nel profondo della società e dunque non solo alla sua superficie, oppongono il carattere sempre più sociale dei processi di produzione (forze produttive) al carattere privato e sempre più concentrato della proprietà di questi mezzi di produzione (rapporti di produzione).

A tale riguardo, ad illuminare il quadro è d’interesse riportare per esteso quanto scrive Marx nel cap. 47 del III Libro:

«La specifica forma economica, in cui il pluslavoro non pagato è succhiato ai produttori diretti, determina il rapporto di signoria e servitù, come esso è originato dalla produzione stessa e da parte sua reagisce su di essa in modo determinante.

Ma su ciò si fonda l’intera configurazione della comunità economica che sorge dai rapporti di produzione stessi e con ciò insieme la sua specifica forma politica. E’ sempre il rapporto diretto tra i proprietari delle condizioni di produzione e i produttori diretti — un rapporto la cui forma ogni volta corrisponde sempre naturalmente ad un grado di sviluppo determinato dei modi in cui si attua il lavoro e quindi della sua forza produttiva sociale — in cui noi troviamo l’intimo arcano, il fondamento nascosto di tutta la costruzione sociale e quindi anche della forma politica del rapporto di sovranità e dipendenza, in breve della forma specifica dello Stato in quel momento.

Ciò non impedisce che la medesima base economica — medesima per ciò che riguarda le condizioni principali — possa manifestarsi in infinite variazioni o gradazioni, dovute a numerose e diverse circostanze empiriche, condizioni naturali, rapporti di razza, influenze storiche che agiscono dall’esterno ecc.: variazioni e gradazioni che possono essere comprese soltanto mediante un’analisi di queste circostanze empiriche date».

1 commento:

  1. Qualche nota per spiegare il limite delle rivolte servili nel mondo antico:"Gli schiavi inizialmente abbondano, perché le grandi guerre di conquista di Roma dal II° al I° secolo a.C., le razzie dei pirati forniscono prigionieri in grande quantità, conseguentemente venduti a basso costo. A questa situazione cercheranno di porre rimedio i “riformatori” del mondo antico, prima greci e poi romani. Ma in realtà le riforme sociali falliscono, rafforzando solo il potere dei latifondisti e dei grandi proprietari di schiavi; i quali infine con l’impero troveranno lo strumento che ne avrebbe tutelato i privilegi.
    Il vero carattere sociale del mondo antico e la voce degli schiavi, che descrivono le loro sofferenze, lo scopriamo solo leggendo le notizie sulle rivolte degli schiavi e i testi biblici neotestamentari apocalittici, nei quali è illustrata la disperazione di chi vive in una società che non promette nessun cambiamento, e tratta come “bestiame umano” gli schiavi. La diffidenza e il pregiudizio, spesso anche di natura razziale, impediscono, tranne in rari casi, che agli schiavi rivoltosi si uniscano gli uomini liberi di infima condizione. Solo nelle rivolte degli schiavi in Sicilia, in particolare in quella diretta da Euno, ed in quella famosa di Spartaco in Italia, avverrà un’alleanza tra schiavi e poveri, quest’ultimi di condizione libera. Per poter avviare questa collaborazione, però, i capi rivoltosi dovranno ricorrere spesso a pratiche magiche e religiose necessarie per far accettare la loro azione politica alle masse di schiavi rivoltosi; totalmente abbrutite dalla violenza del servaggio e travolte dalla furia della vendetta.
    Le rivolte per quanto forti e pericolose non hanno possibilità di successo sia per l’assenza di alleanza con gli uomini liberi sia perché non sono dotate di un progetto politico coerente. Gli schiavi rivoltosi perseguono come obiettivo politico da realizzare o un mondo nel quale i ricchi diverranno a loro volta i loro schiavi; oppure una società dove verrà eliminato il latifondo, tornando alla condizione economica e sociale antecedente l’ascesa del sistema schiavista, con la presenza diffusa di piccoli produttori.
    L’affermazione definitiva dell’Impero Romano pone fine all’incertezza politica, risalente al I° a.c. eliminando il fattore principale che inizialmente favoriva le rivolte servili; cioè la debolezza politica della gestione del potere non più la struttura arcaica di una polis, ma quella “moderna” di un imperatore.
    L’impero, infatti, offre ai ceti dominanti, i grandi proprietari degli schiavi e latifondisti, l’efficienza di una struttura di comando centralizzata, che spazia per tutto l’ecumene del bacino mediterraneo. L’impero oltre a disporre di una micidiale forza repressiva, possiede uno strumento legislativo altrettanto potente: capace di livellare e semplificare con l’applicazione del diritto romano la condizione sociale, riducendo la società a sole tre categorie: gli schiavi, i non cittadini romani e i cittadini romani. Inoltre, la legislazione imperiale, che si occupa della condizione servile, è adeguata e regolamentata nei suoi vari aspetti in modo preciso e puntuale.
    Può sembrare un dato contraddittorio, ma sono gli imperatori che mitigano la condizione giuridica degli schiavi, giungendo a legiferare con “Senatus consultum Claudianum” (52 d.c.) l’obbligo condizionale di prestare cure mediche allo schiavo malato e la sua liberazione se ciò non avviene, con Nerone, il “crudele imperatore”, allo schiavo si riconosce il diritto di protestare la propria condizione in tribunale; ed infine, con l’imperatore Antonino pio lo schiavo trattato in modo crudele può chiedere il riconoscimento della propria libertà. Lo schiavo in età imperiale potrà possedere dei beni regolarmente e giuridicamente riconosciuti, sotto forma dell’istituto del “peculio”.

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