L’Italia è un paese ricco? Lasciamo da parte il
celeberrimo e paradossale aforisma di Trilussa a riguardo del “pollo”
statistico, concentriamoci sui numeri assoluti. Ebbene sì, l’Italia è un paese
ricco, non solo perché è la seconda manifattura continentale, e ciò nonostante
gli sforzi contrari della sua classe politica passata e vigente, ma perché la
sua ricchezza è stimata in circa il 6 per cento di quella mondiale, pur con una
popolazione inferiore all’1 per cento del totale globale. Per giunta quel 6 per
cento non tiene conto del cospicuo patrimonio “nascosto” (non solo
nell’accezione di “occultato”).
Un paese, l’Italia, che fino ad anni recenti o epoche
relativamente recenti era povero, anzi tra i più poveri dell’Occidente. Paese
dal quale nel primo mezzo secolo dall’unità nazionale emigrò circa un terzo
della popolazione. Non solo dal centro-sud, si emigrava massicciamente anche da
regioni del nord che oggi sono considerate tra le più ricche d’Europa e dunque
del mondo.
Oggi fame e miseria, in generale e nei paesi di più
antica industrializzazione, non sono più gli stessi delle epoche del passato, anche se la povertà non può più essere misurata con gli stessi parametri di un tempo. E che le povertà (al plurale) siano in crescita, non c’è dubbio, anche
se sono tante le persone che, soggette invero a cattiva alimentazione, la fame se
la impongono di tanto in tanto con diete e digiuni, come forma di
“purificazione”. Del resto le credenze religiose hanno sempre avuto un rapporto
molto stretto con i digiuni, e a quanto riuscivano a farci fare i sedicenti
emissari di un dio, ora provvedono i dietisti e i pubblicitari.
Siamo tornati ad emigrare, non solo in quantità di
braccia, ma anche in qualità di competenze (quelli che la pubblicistica
borghese chiama “cervelli”). Da noi, i gradini più bassi della scala sociale
vengono occupati da foresti, cioè da forza-lavoro comprata a prezzi stracciati,
e dunque i nostri giovani preferiscono fare i camerieri e i gelatai a Londra o
Monaco di Baviera. Anche quelli con una laurea da spendere, in non rari casi non
se la passano meglio. Poi, con un diplomino o la licenza media si arriva a
spendere tra i 25 e i 50 mila euro per comprare da dei truffatori le risposte
ai quiz concorsuali dove ai vincitori viene data una divisa da carabiniere o da
mercenario.
Per il futuro non c’è da aspettarsi di meglio, anzi,
la ricchezza si concentrerà sempre più in poche mani, la classe media si
assottiglierà sempre più, la povertà assoluta e relativa interesserà strati
sociali sempre più vasti, con o senza sussidi, con o senza food stamps. I famosi “due poli” marxiani di ricchezza inusitata e
povertà crescente, che ci eravamo quasi dimenticati!
Tutto ciò non è solo causa delle nuove tecnologie,
le quali sono introdotte per risparmiare lavoro, ma del fatto che a fronte
dell’enorme aumento della produttività del lavoro (checché ne dicano i megafoni
del capitale) il singolo operaio continua a lavorare con l’orario di prima. I megafoni di cui sopra obiettano che altri paesi se la cavano meglio. È vero, per
ragioni di forza economica, di posizione internazionale, di qualità della
propria classe dirigente, di organizzazione sociale, di mentalità. Però in
ultima analisi si tratta dell’uso capitalistico che viene fatto delle tecnologie.
Questo è il nodo vero della questione sociale, e cioè il
fatto sempre più incontrovertibile che questo sistema economico non è più compatibile
con il presente e con il domani della società. Sarà la necessità a spingerci
oltre, ma essa da sola non basta a far nascere il nuovo. Verso una società senza classi, verso il
paradiso in terra? Un noto adepto della mia stessa “religione” ebbe a dire che
senza contraddizione non c’è vita. Su questo non ci piove. Che però una società
migliore e più giusta dell’attuale rientri nel novero delle possibilità,
sarebbe da sciocchi negarlo a priori (leggi qui).
La dialettica materialista, la dialettica senza
dogma, non è una religione, ma una bussola per individuare una direzione
possibile; tuttavia non possiamo pretendere che essa ci preannunci in dettaglio
che cosa troveremo nel domani o quali e quanti ostacoli incontreremo lungo il
cammino. Il quale non sarà, questo invece lo sappiamo, né lineare e né immune da
agguati di ogni tipo. Sempre che non si decida di tirare avanti sulla strada
del profitto per il profitto e rendere con ciò inabitabile questo pianeta alla
specie umana.
Trovo più religiosi quegli operai che di fronte a certe evidenze (stesso orario di lavoro da quasi un secolo) preferiscono consolarsi con l'individualismo nichilista di quei gran figli di puttana alto borghesi con tendenze parafasciste.
RispondiEliminaanche con tendenze "democratiche"
Eliminaah la tecnologia non c'entra nulla? Prendiamo l'esempio dei bancari, per comodità. Di quanto s'è ridotto il loro numero in vent'anni? Non solo la globalizzazione, il problema vero, centrale, dell'oggi e del domani è dato dal fatto che al capitale serve sempre meno lavoro vivo.
RispondiEliminaSe si riducesse, non solo a livello locale, la giornata lavorativa della metà quanti posti di lavoro verrebbero a crearsi?
Certo, la globalizzazione aggrava notevolmente il problema, su questo non ci piove. Guardiamo però la cosa, appunto, globalmente e in prospettiva. La vera sfida è data dal sempre più sfavorevole rapporto tra capitale costante e capitale variabile.
Di italiani che vanno a lavorare in Vietnam o anche solo in Polonia ne vedo pochini.
grazie del commento e saluti
paese povero abitato da ricchi
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