Quanto è importante la conoscenza del passato, di ciò
che chiamiamo storia? Nella misura in cui acquistiamo conoscenza del passato,
acquistiamo conoscenza del presente e del futuro, poiché sia l’uno e l’altro
derivano dal passato e in parte ne sono determinati. L’ignoranza è la mancanza
del senso della storia.
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Non fu un complotto, non almeno nel senso corrente al
quale associamo questo termine. La Deutsche Bank, che viene sempre tirata in
ballo nelle ricostruzioni complottistiche del 2011, con le sue operazioni sui
titoli del debito italiano non influenzò negativamente il mercato, e del resto
non agiva su mandato di Berlino, piuttosto di quello dei suoi azionisti, cioè
degli investitori internazionali (in maggioranza, cinesi, americani e qatarioti)
i quali puntavano solo a ciò a cui puntano tutti coloro che fanno un
investimento, piccolo o grande, ossia al profitto, al vile denaro, allo sterco
del diavolo.
Più che di un complotto si può parlare di una serie
di circostanze che vennero a coincidere, di nodi che venivano al pettine. E
quello italiano è un pettine nel quale s’impigliano nodi storici giganteschi.
Nel 2008, il presidente della Bce, Trichet, aveva trovato
95 miliardi per salvare i conti della Francia, ma successivamente ritenne che
il salvataggio della Grecia fosse troppo oneroso, quando in effetti richiedeva
poche decine di miliardi. Fu solo un errore di valutazione? Questo fatto mise
in allarme i mercati: se non si erano salvati i conti della Grecia, si sarebbe
fatto lo stesso per l’Italia e la Spagna? Di qui la vendita dei titoli del
debito italiano, una fuga che si sarebbe potuta peraltro arginare nel vertice
del G20 svoltosi tra il 3 e 4 novembre 2011 a Cannes e nei giorni
immediatamente successivi.
Durante quel G20, la cancelliera Merkel consultò la Bundesbanck sul da farsi, cioè sul rischio di
default dell’Italia e della Spagna che avrebbe
compromesso l’euro. Propose un’apertura di credito da parte del FMI per 85
miliardi per l’Italia e 50 per la Spagna, a patto che sottoscrivessero
determinate condizioni subordinate alle direttive del FMI.
In pratica si trattava di un commissariamento, al
quale Berlusconi e Tremonti non vollero sottostare come invece accadde per la
Grecia, l’Irlanda e il Portogallo. Essi ritenevano che in base ai risparmi
privati e i fondamentali economici dell’Italia le condizioni fossero ben diverse
rispetto a quei paesi. Cosa che corrisponde peraltro a realtà, però bisognava affrontare seriamente i problemi e per tempo.
Si giunse a un compromesso, per cui il FMI e la
Commissione europea avrebbero istituito un “gruppo di supervisione” per
monitorare il programma di “stabilità e riforme” presentato da Palazzo Chigi.
Figuriamoci se Berlusconi e Tremonti avrebbero colpito i cospicui “risparmi
privati”, magari con una tassazione “europea” su successioni, donazioni,
polizze vita e affini, insomma con una tassazione dei patrimoni alla quale è
difficile sottrarsi, visto che l’evasione fiscale, per motivi di consenso
elettorale, nessun governo vuole davvero arginarla. Né, per l’opposizione delle
varie “componenti sociali”, avrebbero messo mano sulla spesa pubblica, cioè sui
costi impropri, gli sprechi, le corruttele di ogni genere, la pletora degli
organismi di spesa, gli emolumenti pazzeschi.
Il rialzo dei tassi d’interesse a seguito della crisi
greca non aveva mancato di produrre effetti anche sui nostri tassi e dunque sul
debito pubblico. Le agenzie di rating avevano agito di conseguenza, con buona
pace della procura di … Trani (?!), declassando l’Italia. Lo spread salì a circa 400 punti sul Bund, per poi toccare 530 e fino a 570 dopo che alla Camera
si approvò il rendiconto di bilancio solo perché i partiti di opposizione
avevano deciso di non partecipare alla votazione. La debolezza del governo era posta
alla luce del sole.
Il resto venne da sé, poiché c’era molto da
guadagnare da una continua ascesa dello spread, e neppure un maxiemendamento introdotto
nella legge finanziaria e approvato l’11 novembre per dar corso alle riforme
richieste da Bruxelles mise un freno alla speculazione. Di solito le cose
accadono in modo assai più semplice e quasi banale di quanto ricostruito a
posteriori da sceneggiature distopiche.
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Si può pensare tutto il male possibile a riguardo di
Mario Monti, e però il rettore della Bocconi ed ex commissario europeo
designato (con la Bonino) dal primo governo Berlusconi, fu l’uomo giusto al momento
giusto. Non gode di buona fama soprattutto a causa della riforma pensionistica,
nota impropriamente come legge Fornero (si tratta dell’art. 24, Disposizioni in
materia di trattamenti pensionistici, del Decreto legge 6 dicembre 2011, n.
201, Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei
conti pubblici).
Questo provvedimento è sostanzialmente una buona
riforma, salvo che per taluni aspetti non proprio marginali. Per esempio per
quanto riguarda i famosi “esodati”, per la scarsa gradualità delle nuove
misure, ma soprattutto sconta il fatto di non aver abrogato quell’infernale
meccanismo legato alla cosiddetta aspettativa di vita, introdotto, non già
dalla Monti-Fornero, ma dal ministro del Lavoro Maurizio Sacconi nel luglio
2011 e con effetto dal 2013.
Spalmare questo meccanismo su tutta la platea dei
lavoratori, prescindendo dalla tipologia del lavoro svolto, è stata un’evidente
cazzata frutto della fretta e del disinteresse elitario per le sorti delle
anime comuni. La legislazione previdenziale tedesca, molto a sproposito citata,
sulla quale quella italiana è stata evidentemente
ricalcata, ha previsto una maggiore gradualità (fino alla classe 1964), per poi
assestare i requisiti per la pensione di vecchiaia a 67 anni senza ulteriori
infernali meccanismi legati alla cd speranza di vita.
Ora basterebbe fissare a 41 anni l’uscita cd
“anticipata”, ed estendere la platea dei lavori gravosi e usuranti per una quota 100 a chi ha 63 anni (verrebbe quindi allentato il “tappo” che oggi
preclude l’immissione nel lavoro di forze più giovani).
Vero è che le pensioni “anticipate” sono prevalenti
su quelle di vecchiaia, tuttavia, con buona pace di Giuliano Cazzola, bisogna
tener conto che si tratta della coda del
fenomeno, poiché già tra pochi anni in pensione “anticipata” ci potranno
andare prevalentemente gli statali, e per gli altri i 41 anni di contribuzione,
soprattutto continuativa, saranno solo un miraggio. Prevedere uno svecchiamento
e assottigliamento volontario del pubblico impiego non è cosa cattiva.
Un’altra misura che potrebbe partire dal prossimo
anno, per chi matura i requisiti dei 41 anni, potrebbe essere quella del calcolo totalmente contributivo per gli assegni
superiori ai 3.000 euro lordi, e un sostanzioso, progressivo e temporaneo
contributo di “solidarietà” per tutte quelle sopra i 4.000. E invece …
Monti ha chiuso le stalle dopo aver fatto scappare i buoi.
RispondiEliminaOra gli asini volano al governo.