giovedì 3 maggio 2018

Ripassiamo le tabelline



Il lavoro, come concetto e come realtà sociale, è circondato da un’aura d’ipocrisia che si trasforma in menzogna, quella di non voler ammettere che il lavoro è una merce. Si arringa dai pulpiti e si grida nelle piazze: “Il lavoro non è una merce!”. Sciocchi. Se non fosse una merce, il capitalista non potrebbe acquistarla; se non ricavasse più di quanto gli costa, non avrebbe senso parlarne.

Che lo scopo generale del lavoro sia l’accrescimento della ricchezza è un’ovvietà. Come poi venga distribuita tale ricchezza è tutt’altro paio di maniche. Tuttavia la questione fondamentale, prima ancora d’interessare il modo nel quale si distribuisce la ricchezza, sta a monte, ossia nel modo nel quale essa viene prodotta.

L’operaio vende la sua forza-lavoro per procurare il necessario alla propria sopravvivenza e a quella della sua famiglia, affinché la schiatta di proletari non si estingua (*). Il capitalista acquista la forza-lavoro per un unico banalissimo motivo: ricavare dal suo impiego un valore più alto di quanto non abbia speso per acquistarla.

Già qui incontriamo una prima e sostanziale differenza nella condizione in cui si trovano, l’uno di fronte all’altro, operaio e capitalista: il primo deve vendere, il secondo può acquistare. Quando si parla di rapporti di produzione, e di rapporti sociali in generale, è necessario partire da tale ovvio presupposto.


Il capitalista ha il coltello dalla parte del manico, quindi viene da sé che il prezzo della forza-lavoro è condizionato dai rapporti di forza, oltre che dal rapporto tra domanda e offerta, ecc.. Ed è interesse del capitalista esporre l’operaio ad una maggiore concorrenza, con altri operai senza lavoro e con nuovo macchinario (che l’incremento del numero e della potenza delle macchine produca mediamente una maggiore domanda di forza-lavoro è una leggenda per deficienti).

Tutto ciò nella mente delle anime belle appare come uno scandalo. Ed infatti vediamo cosa dice la nostra gloriosa Costituzione all’articolo 36: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”.

Se lavori più ore, a parità di condizioni, è abbastanza normale che ti paghino di più (salvo tassarti gli straordinari). E tuttavia l’articolo della Costituzione parla chiaro: si sostiene il principio che il lavoratore, al pari di un cavallo, deve guadagnare tanto che gli basti per tornare a vendere ogni giorno liberamente la propria forza-lavoro a un padrone, e però con un concetto assai alto della propria dignità. Vende la sua merce per vivere non come uomo ma come operaio. Non deve propagare l’umanità, ma la classe degli schiavi moderni.


(*)Va da sé, tranne che per i sociologi e i cretini borghesi, che la domanda di uomini, come ogni altra merce, regola necessariamente la produzione di uomini. Il resto, per dirla in latino, sono ciacole e statistiche ad capocchiam.

5 commenti:

  1. "L’operaio vende la sua forza-lavoro per procurare il necessario alla propria sopravvivenza e a quella della sua famiglia, affinché la schiatta di proletari non si estingua"


    appunto. E se fornissimo all'operaio un reddito che gli
    permetta di non vendere la propria forza lavoro ?

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    1. un reddito che gli permetta di non vendere la propria forza lavoro

      si " l' idea" il 4 marzo ha funzionato; Non si sa chi dovrebbe fornire tale " reddito" in cambio di nulla, ma di sicuro questo " reddito di nullafacenza" ha un fascino irresistibile . Quale " povero " ( soprattutto di "spirito") non vorrebbe vivere nel " paese della cuccagna" ?.
      ws

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  2. «Come poi venga distribuita tale ricchezza è tutt’altro paio di maniche.». Sì. Epperò, il vulnus, come fai ben notare, sono i "rapporti di produzione» e non di "distribuzione". E questo accade perché il primo è vero scopo della produzione è aumentare il valore del capitale investito per produrla. D→M→D' e, peggio ancora, con la finanziarizzazione imperante dell'economia: D→D'.

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  3. “Già qui incontriamo una prima e sostanziale differenza nella condizione in cui si trovano, l’uno di fronte all’altro, operaio e capitalista: il primo deve vendere, il secondo può acquistare”.
    Il problema nasce dal fatto che il capitalista riesce a condizionare sempre il lavoratore, sia nella I° fase, sia nella II°, quando deve vendere il prodotto. Utilizzando la pubblicità “convince” il lavoratore ad acquistare, chiudendo il cerchio: Produci-Consuma-Crepa.

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