Vado a letto presto, come ebbe a dire una volta
Robert De Niro, e mi alzo quando altri spengono il computer o il televisore. Albeggia.
Alle 4 e qualcosa il nuovo giorno tenta di farsi avanti. I merli, sul vecchio e
frondoso ciliegio, più che cantare fischiano. Un cane abbaia lontano, non
avendo un cazzo da fare. Finalmente è il 6 maggio, non se ne poteva più di
quella sbornia celebrativa.
Da giorni si poteva leggere e sentire, specie alla
radio, ogni possibile sciocchezza, approssimazione, strumentalizzazione,
falsificazione. Ognuno si sente autorizzato di dire la sua. Senza vergogna,
forti di poter esibire il proprio passe-partout di filosofi, semifilosofi, sociologi,
economisti, con laurea vidimata ma anche no, filantropi delle tasche padronali,
storici della Magna Grecia, politici e giornalisti del gratta e magna, fondatori,
minuti riformisti, picisti pentiti, nuovi evangelisti, zelanti twittaroli,
naufraghi, begli spiriti che si elevano sopra ogni cosa. Padri e figli dello
spettacolo.
Ma quando è arrivato Marx in Italia? Ci pensò il
partenopeo Achille Loria, nell’aprile 1883, cioè a cadavere ancora caldo, a fornirci
una biografia infarcita di dati inesatti, quindi una critica della sua attività
pubblica, politica e letteraria. Poi nel 1886, lo stesso signor Loria pubblicò
un volume, La teoria economica della
costituzione politica, che doveva sbalordire i suoi contemporanei poiché vi
illustrava una sua mirabile scoperta:
che in ogni luogo e tempo le situazioni e gli eventi politici trovano la loro
spiegazione nelle corrispondenti condizioni economiche. Una nuovissima teoria
storica che fece epoca.
Ci penserà Engels a ridicolizzarlo, a strappargli le
penne di pavone usurpate, a bastonarlo quando sostiene che la teoria marxista
del plusvalore è assolutamente inconciliabile con la realtà di un saggio
generale ed uniforme del profitto. Scrive Engels: «Se il signor Loria fosse
stato uno di noi timidi tedeschi, si sarebbe trovato in imbarazzo. Ma egli è un
meridionale ardito, originario di un paese caldo, dove — come egli può
testimoniare — la sfrontatezza è in un certo senso una condizione naturale».
Era dunque questo il giudizio di Engels sull’Italia e
gli italiani? Non proprio: «L’Italia è la terra della classicità. Dalla grande
epoca in cui spuntò sul suo orizzonte l’alba della civiltà moderna, essa ha
prodotto grandi caratteri, di classica ineguagliata perfezione, da Dante a
Garibaldi. Ma anche l’età della decadenza e della dominazione straniera le ha
lasciato maschere classiche di caratteri, fra cui due tipi particolarmente
elaborati: Sganarello e Dulcamara. La loro classica unità noi la vediamo
impersonata nel nostro illustre Loria».
Engels morì prima di dover leggere la “critica” di un
altro partenopeo, d’adozione, a Marx. Quella occasionale, superficiale e
approssimativa di Benedetto Croce. Questi si prese la briga di criticare una
delle fondamentali scoperte di Marx, ossia la legge sulla caduta tendenziale
del profitto. Ci penserà Gramsci, senza peraltro notevole sforzo, a dargli una
legnata sulla zucca. Del resto sarebbe bastato che il grand’uomo fosse andato
oltre il 13 capitolo del III Libro, cioè avesse letto i due capitoli
successivi, per trovare risposte esaustive ai dubbi sollevati dalla sua “critica”.
Sganarello e Dulcamara, disse bene Engels.
Nessun commento:
Posta un commento