domenica 6 maggio 2018

Maschere / 1



Vado a letto presto, come ebbe a dire una volta Robert De Niro, e mi alzo quando altri spengono il computer o il televisore. Albeggia. Alle 4 e qualcosa il nuovo giorno tenta di farsi avanti. I merli, sul vecchio e frondoso ciliegio, più che cantare fischiano. Un cane abbaia lontano, non avendo un cazzo da fare. Finalmente è il 6 maggio, non se ne poteva più di quella sbornia celebrativa.  

Da giorni si poteva leggere e sentire, specie alla radio, ogni possibile sciocchezza, approssimazione, strumentalizzazione, falsificazione. Ognuno si sente autorizzato di dire la sua. Senza vergogna, forti di poter esibire il proprio passe-partout di filosofi, semifilosofi, sociologi, economisti, con laurea vidimata ma anche no, filantropi delle tasche padronali, storici della Magna Grecia, politici e giornalisti del gratta e magna, fondatori, minuti riformisti, picisti pentiti, nuovi evangelisti, zelanti twittaroli, naufraghi, begli spiriti che si elevano sopra ogni cosa. Padri e figli dello spettacolo.



Ma quando è arrivato Marx in Italia? Ci pensò il partenopeo Achille Loria, nell’aprile 1883, cioè a cadavere ancora caldo, a fornirci una biografia infarcita di dati inesatti, quindi una critica della sua attività pubblica, politica e letteraria. Poi nel 1886, lo stesso signor Loria pubblicò un volume, La teoria economica della costituzione politica, che doveva sbalordire i suoi contemporanei poiché vi illustrava una sua mirabile scoperta: che in ogni luogo e tempo le situazioni e gli eventi politici trovano la loro spiegazione nelle corrispondenti condizioni economiche. Una nuovissima teoria storica che fece epoca.

Ci penserà Engels a ridicolizzarlo, a strappargli le penne di pavone usurpate, a bastonarlo quando sostiene che la teoria marxista del plusvalore è assolutamente inconciliabile con la realtà di un saggio generale ed uniforme del profitto. Scrive Engels: «Se il signor Loria fosse stato uno di noi timidi tedeschi, si sarebbe trovato in imbarazzo. Ma egli è un meridionale ardito, originario di un paese caldo, dove — come egli può testimoniare — la sfrontatezza è in un certo senso una condizione naturale».

Era dunque questo il giudizio di Engels sull’Italia e gli italiani? Non proprio: «L’Italia è la terra della classicità. Dalla grande epoca in cui spuntò sul suo orizzonte l’alba della civiltà moderna, essa ha prodotto grandi caratteri, di classica ineguagliata perfezione, da Dante a Garibaldi. Ma anche l’età della decadenza e della dominazione straniera le ha lasciato maschere classiche di caratteri, fra cui due tipi particolarmente elaborati: Sganarello e Dulcamara. La loro classica unità noi la vediamo impersonata nel nostro illustre Loria».

Engels morì prima di dover leggere la “critica” di un altro partenopeo, d’adozione, a Marx. Quella occasionale, superficiale e approssimativa di Benedetto Croce. Questi si prese la briga di criticare una delle fondamentali scoperte di Marx, ossia la legge sulla caduta tendenziale del profitto. Ci penserà Gramsci, senza peraltro notevole sforzo, a dargli una legnata sulla zucca. Del resto sarebbe bastato che il grand’uomo fosse andato oltre il 13 capitolo del III Libro, cioè avesse letto i due capitoli successivi, per trovare risposte esaustive ai dubbi sollevati dalla sua “critica”.

Sganarello e Dulcamara, disse bene Engels.

Nessun commento:

Posta un commento