mercoledì 3 agosto 2016

A Spartaco mancarono le condizioni di possibilità


Siamo in trepidante attesa del prossimo botto finanziario. Che avvenga ora, nel prossimo autunno o tra anni, poco importa. Seguiranno analisi e interpretazioni, come nel caso del crollo del prezzo del petrolio e di altre materie prime. È una deflazione da debito, scrive inesausto qualcuno. Bella scoperta, ma si tratta di un fenomeno, e neanche il più importante, non della causa.

La deflazione, ossia la diminuzione di prezzo delle singole merci, la cui somma rappresenta il prodotto complessivo del capitale, sta a mostrare unicamente che una determinata quantità di lavoro si realizza in una maggiore massa di merci e cioè che ogni singola merce racchiude meno lavoro di prima. Questa la causa, rintracciabile nella sfera della produzione. Ciò che poi avviene nella fantasmagorica sfera della circolazione (debito e credito, con attori primari come le banche, i fondi e le assicurazioni, i problemi di redditività, cioè i tassi negativi, la speculazione con protagoniste le Borse, così come per ogni altro gioco a rubamazzo), è solo conseguenza.



Tuttavia, nonostante la crisi o piuttosto per tale ragione, sono in molti a darsi pena di osservare che il numero dei “ricchi” è in continuo aumento! Anche ponendo il caso che si tratti di ricchezza accumulata esclusivamente nell’ambito della produzione (poiché il resto è spartizione del bottino), va osservato che le stesse leggi producono per il capitale sociale un aumento sia della massa assoluta del profitto e sia una diminuzione del saggio del profitto.

Che cosa c’entra la diminuzione del saggio del profitto con la crisi sistemica del modo di produzione capitalistico? Il saggio del profitto costituisce la forza motrice della produzione capitalistica: viene prodotto solo quello che può essere prodotto con profitto e nella misura in cui tale profitto può essere ottenuto. Gli economisti non sono capaci di spiegare la legge della diminuzione del saggio del profitto, ma hanno buon gioco nel presentare la crescente massa del profitto e l’aumento della grandezza assoluta di essa (tanto per i singoli capitalisti quanto per il capitale sociale) come una sorta di motivo di consolazione che risulta però formato da luoghi comuni e da possibilità.

Non sanno formulare con esattezza scientifica la differenza fra capitale costante e capitale variabile, non hanno mai fatto distinzione fra plusvalore e profitto, né sanno spiegare cos’è il profitto puro separato dai vari elementi che lo costituiscono e che sono resi reciprocamente indipendenti, eccetera, e però pretendono di aver chiare non solo le cause della crisi, ma di proporre ricette per superarla!

*

La diminuzione del saggio generale del profitto non può non avere conseguenze decisive sul sistema economico nel suo complesso, sullo sviluppo del capitalismo e la storia delle nostre società. Si tratta di qualcosa che produce conseguenze sociali molto profonde e ampie, e inevitabilmente anche sul piano dei rapporti internazionali, eccetera.


Prendiamo una certa popolazione operaia, per esempio di due milioni; allo stesso tempo siano note la lunghezza e l’intensità della giornata lavorativa media, il salario e, di conseguenza, il rapporto tra lavoro necessario e pluslavoro. Il lavoro totale di questi 2 milioni di operai, e quindi il loro pluslavoro, rappresentato dal plusvalore, produce sempre un valore della stessa grandezza. Ma l’aumento della massa del capitale costante — fisso e circolante — che attiva il lavoro, è accompagnato dalla diminuzione del rapporto tra quella grandezza di valore e il valore del capitale, che aumenta con la massa di esso, seppur non nella stessa misura.

Tale rapporto, e con esso il saggio del profitto, diminuisce malgrado il capitale abbia ai propri comandi la medesima quantità di vivo lavoro e assorba la medesima massa di pluslavoro di prima. La modificazione della porzione non è dovuta alla diminuzione della massa di vivo lavoro bensì all’aumento della massa di lavoro già oggettivato che essa ha posto in movimento.

In altri termini ancora: la stessa evoluzione, che porta all’aumento della massa del capitale costante rispetto al variabile, tende a far diminuire, in seguito alla crescente produttività del lavoro, il valore degli elementi che lo costituiscono ed impedisce di conseguenza che il valore del capitale costante (per quanto in continuo aumento) si accresca nella stessa proporzione della sua massa materiale, cioè della massa materiale dei mezzi di produzione messi in opera da una stessa quantità di forza-lavoro.

Questa, peraltro, è la situazione classica in cui avviene la caduta del saggio del profitto, e però noi assistiamo, in questa fase, anche alla diminuzione non solo relativa ma assoluta di vivo lavoro in rapporto alla massa del capitale costante, dovuta all’impiego massiccio – come mai prima d’ora e in così breve lasso di tempo – di nuove e rivoluzionarie tecnologie, che hanno prodotto l’annullamento delle distanze temporali, ma soprattutto segnano il tramonto della società industriale per come l'abbiamo conosciuta e l'implosione dei relativi rapporti sociali (*).

E fin qui, stante l’irritante evidenza, potrebbero arrivarci anche degli economisti et similia. Non oltre.

La tendenza progressiva alla diminuzione del saggio generale del profitto è espressione peculiare del modo di produzione capitalistico per lo sviluppo progressivo della produttività sociale del lavoro. Ciò non significa che il saggio del profitto non possa temporaneamente diminuire anche per altri motivi, ma significa che, in conseguenza della stessa natura della produzione capitalistica e come una necessità logica del suo sviluppo, il saggio generale medio del plusvalore deve esprimersi in un calo del saggio generale del profitto.

Nonostante il capitalismo agisca ormai generalmente in regime di monopolio, a causa del calo del saggio generale del profitto assistiamo al crollo degli investimenti produttivi e al gonfiarsi parossistico della speculazione. Il processo di produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza dell’intera società è sconvolto ora in un punto ora in un altro in misura via via più profonda e sempre più diffusamente.

Pertanto si è venuta a creare una situazione nella quale la produzione basata sul valore di scambio mostra il suo limite storico. Ed è ciò che economisti et similia non possono ammettere, data la loro posizione di classe e gli interessi di gruppo sociale da difendere E non so se sia più patetico o più comico il fatto che essi credano che questa descrizione della realtà storica del capitalismo, quale forma transitoria della società, sia frutto di una posizione ideologica e non già di un’analisi scientifica.

A tale riguardo ammetto e riconosco che nessuna formazione storico-sociale veda di buon occhio che si dichiari che essa è destinata ad essere superata (se l’umanità non deciderà di estinguersi anzitempo). Ad ogni modo si deve tener presente che né i padroni di schiavi, né gli schiavi potevano aspirare ad una effettiva coscienza sociale. Non lo potevano i Greci ed i Romani, non lo poteva Spartaco. Stessa cosa si può dire per l’aristocrazia feudale e per le rivolte contadine che hanno costellato il divenire del modo di produzione feudale. È solo con l’instaurarsi del dominio reale del capitale entro le formazioni sociali capitalistiche che si creano, insieme alle forme illusorie della coscienza sociale, le condizioni di possibilità, non solo materiali, del loro rivoluzionamento.

«Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato,
un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi.
Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.
Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente.»

(*) Sul piano sociale si palesa anche un altro fenomeno, laddove nella medesima proporzione in cui si sviluppa la produzione capitalistica si sviluppa anche la possibilità di una sovrabbondanza relativa di popolazione operaia. Possibilità che è divenuta una realtà sempre più problematica, dilacerante ed esplosiva.



3 commenti:

  1. Mi viene da piangere a pensare al dibattersi, contorcersi dei vari riformisti, all'avanza (piuttosto inquientante) dei vari nazionalismi "autarchici" - ma da nessuna parte, se non in questo luogo e in altri pochi, vedo ragioni per non disperare.

    RispondiElimina
  2. bel post da far leggere agli aspiranti manipolatori del processo sociale, quelli che accettano alcune leggi del Capitalismo e vorrebbero respingerne le più sconvenienti per il loro gruppo o ceto

    RispondiElimina