Siamo
in trepidante attesa del prossimo botto finanziario. Che avvenga ora, nel
prossimo autunno o tra anni, poco importa. Seguiranno analisi e
interpretazioni, come nel caso del crollo del prezzo del petrolio e di altre
materie prime. È una deflazione da debito, scrive inesausto qualcuno. Bella
scoperta, ma si tratta di un fenomeno,
e neanche il più importante, non
della causa.
La
deflazione, ossia la diminuzione di prezzo delle singole merci, la cui somma
rappresenta il prodotto complessivo del capitale, sta a mostrare unicamente che
una determinata quantità di lavoro si realizza in una maggiore massa di merci e
cioè che ogni singola merce racchiude meno lavoro di prima. Questa la causa,
rintracciabile nella sfera della produzione. Ciò che poi avviene nella
fantasmagorica sfera della circolazione (debito e credito, con attori primari
come le banche, i fondi e le assicurazioni, i problemi di redditività, cioè i
tassi negativi, la speculazione con protagoniste le Borse, così come per ogni
altro gioco a rubamazzo), è solo
conseguenza.
Tuttavia,
nonostante la crisi o piuttosto per tale ragione, sono in molti a darsi pena di
osservare che il numero dei “ricchi” è in continuo aumento! Anche ponendo il
caso che si tratti di ricchezza accumulata esclusivamente nell’ambito della
produzione (poiché il resto è spartizione del bottino), va osservato che le stesse leggi producono per il
capitale sociale un aumento sia della massa assoluta del profitto e sia una
diminuzione del saggio del profitto.
Che
cosa c’entra la diminuzione del saggio del profitto con la crisi sistemica del
modo di produzione capitalistico? Il saggio del profitto costituisce la forza
motrice della produzione capitalistica: viene prodotto solo quello che può
essere prodotto con profitto e nella misura in cui tale profitto può essere
ottenuto. Gli economisti non sono capaci di spiegare la legge della diminuzione del saggio del profitto, ma hanno buon gioco nel presentare la crescente massa
del profitto e l’aumento della grandezza assoluta di essa (tanto per i singoli
capitalisti quanto per il capitale sociale) come una sorta di motivo di
consolazione che risulta però formato da
luoghi comuni e da possibilità.
Non
sanno formulare con esattezza scientifica
la differenza fra capitale costante e capitale variabile, non hanno mai fatto distinzione fra plusvalore e profitto, né sanno spiegare cos’è il profitto puro
separato dai vari elementi che lo costituiscono e che sono resi reciprocamente
indipendenti, eccetera, e però pretendono di aver chiare non solo le cause
della crisi, ma di proporre ricette per superarla!
*
La
diminuzione del saggio generale del profitto non può non avere conseguenze decisive sul sistema
economico nel suo complesso, sullo sviluppo del capitalismo e la storia delle nostre società. Si
tratta di qualcosa che produce conseguenze sociali molto profonde e ampie, e
inevitabilmente anche sul piano dei rapporti internazionali, eccetera.
Prendiamo
una certa popolazione operaia, per esempio di due milioni; allo stesso tempo
siano note la lunghezza e l’intensità della giornata lavorativa media, il
salario e, di conseguenza, il rapporto tra lavoro necessario e pluslavoro. Il
lavoro totale di questi 2 milioni di operai, e quindi il loro pluslavoro,
rappresentato dal plusvalore, produce sempre un valore della stessa grandezza. Ma
l’aumento della massa del capitale costante — fisso e circolante — che attiva il
lavoro, è accompagnato dalla diminuzione del rapporto tra quella grandezza di
valore e il valore del capitale, che aumenta con la massa di esso, seppur non
nella stessa misura.
Tale
rapporto, e con esso il saggio del profitto, diminuisce malgrado il capitale
abbia ai propri comandi la medesima quantità di vivo lavoro e assorba la
medesima massa di pluslavoro di prima. La modificazione della porzione non è
dovuta alla diminuzione della massa di vivo lavoro bensì all’aumento della
massa di lavoro già oggettivato che essa ha posto in movimento.
In altri termini ancora: la stessa evoluzione, che porta all’aumento della massa del capitale costante rispetto al variabile, tende a far diminuire, in seguito alla crescente produttività del lavoro, il valore degli elementi che lo costituiscono ed impedisce di conseguenza che il valore del capitale costante (per quanto in continuo aumento) si accresca nella stessa proporzione della sua massa materiale, cioè della massa materiale dei mezzi di produzione messi in opera da una stessa quantità di forza-lavoro.
In altri termini ancora: la stessa evoluzione, che porta all’aumento della massa del capitale costante rispetto al variabile, tende a far diminuire, in seguito alla crescente produttività del lavoro, il valore degli elementi che lo costituiscono ed impedisce di conseguenza che il valore del capitale costante (per quanto in continuo aumento) si accresca nella stessa proporzione della sua massa materiale, cioè della massa materiale dei mezzi di produzione messi in opera da una stessa quantità di forza-lavoro.
Questa, peraltro, è la situazione classica in cui avviene la caduta del saggio del profitto, e però noi assistiamo, in questa fase, anche alla diminuzione non solo relativa ma assoluta di vivo lavoro in rapporto alla massa del capitale costante, dovuta all’impiego massiccio – come mai prima d’ora e in così breve lasso di tempo – di nuove e rivoluzionarie tecnologie, che hanno prodotto l’annullamento delle distanze temporali, ma soprattutto segnano il tramonto della società industriale per come l'abbiamo conosciuta e l'implosione dei relativi rapporti sociali (*).
E
fin qui, stante l’irritante evidenza, potrebbero arrivarci anche degli
economisti et similia. Non oltre.
La
tendenza progressiva alla diminuzione del saggio generale del profitto è espressione peculiare del modo di
produzione capitalistico per lo sviluppo progressivo della produttività sociale
del lavoro. Ciò non significa che il saggio del profitto non possa
temporaneamente diminuire anche per altri motivi, ma significa che, in
conseguenza della stessa natura della produzione capitalistica e come una necessità logica del suo sviluppo, il saggio generale
medio del plusvalore deve esprimersi in un calo del saggio generale del
profitto.
Nonostante
il capitalismo agisca ormai generalmente in regime di monopolio, a causa del calo
del saggio generale del profitto assistiamo al crollo degli investimenti
produttivi e al gonfiarsi parossistico della speculazione. Il processo di
produzione e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza dell’intera
società è sconvolto ora in un punto ora in un altro in misura via via più
profonda e sempre più diffusamente.
Pertanto
si è venuta a creare una situazione nella quale la produzione basata sul valore di scambio mostra il suo limite storico. Ed è ciò che
economisti et similia non possono ammettere,
data la loro posizione di classe e gli interessi di gruppo sociale da difendere
E non so se sia più patetico o più comico il fatto che essi credano che questa
descrizione della realtà storica del capitalismo, quale forma transitoria della
società, sia frutto di una posizione ideologica e non già di un’analisi
scientifica.
A
tale riguardo ammetto e riconosco che nessuna formazione storico-sociale veda
di buon occhio che si dichiari che essa è destinata ad essere superata (se
l’umanità non deciderà di estinguersi anzitempo). Ad ogni modo si deve tener
presente che né i padroni di schiavi, né gli schiavi potevano aspirare ad una
effettiva coscienza sociale. Non lo potevano i Greci ed i Romani, non lo poteva
Spartaco. Stessa cosa si può dire per l’aristocrazia feudale e per le rivolte
contadine che hanno costellato il divenire del modo di produzione feudale. È solo
con l’instaurarsi del dominio reale del capitale entro le formazioni sociali capitalistiche
che si creano, insieme alle forme
illusorie della coscienza sociale, le
condizioni di possibilità, non solo materiali, del loro rivoluzionamento.
«Il comunismo per noi non è uno stato
di cose che debba essere instaurato,
un ideale al quale la realtà dovrà
conformarsi.
Chiamiamo comunismo il movimento reale
che abolisce lo stato di cose presente.
Le condizioni di questo movimento
risultano dal presupposto ora esistente.»
(*)
Sul piano sociale si palesa anche un altro fenomeno, laddove nella medesima
proporzione in cui si sviluppa la produzione capitalistica si sviluppa anche la
possibilità di una sovrabbondanza relativa di popolazione operaia.
Possibilità che è divenuta una realtà sempre più problematica, dilacerante ed esplosiva.
Mi viene da piangere a pensare al dibattersi, contorcersi dei vari riformisti, all'avanza (piuttosto inquientante) dei vari nazionalismi "autarchici" - ma da nessuna parte, se non in questo luogo e in altri pochi, vedo ragioni per non disperare.
RispondiEliminaspero nel frattempo il paradiso possa attendere
Eliminabel post da far leggere agli aspiranti manipolatori del processo sociale, quelli che accettano alcune leggi del Capitalismo e vorrebbero respingerne le più sconvenienti per il loro gruppo o ceto
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