Renzi Matteo è un semplificatore,
non ha obiettivi strategici, ma solo obiettivi di potere e quindi scopi pratici
immediati. Si vede bene con la riforma del senato e con l’impronta data alla
nuova legge elettorale, provvedimenti entrambi che rispondono nelle loro
formulazioni più al calcolo immediato – nel gioco taroccato con Berlusconi – che
alle attese di una nuova stagione politica e istituzionale.
Insomma, a Renzi fa difetto la cultura e la capacità per saper
condurre una politica complessa e di ampia visione delle questioni, dunque
oltre il personalismo che porta ad una selezione arbitraria dei problemi, ad
aggirarne alcuni e accantonare altri. Mai la sinistra aveva promosso
esponenti di qualità così modeste e che tuttavia riflettono il livellamento generale
della classe dirigente italiana.
Penso dunque che Renzi non sia una
casualità. Ricordo quando Bersani, uscito “non vincente” dalle elezioni, invece
di sintonizzarsi su ciò che quel terremoto di protesta esprimeva, di tentare cioè
un’effettiva mediazione con il movimento di Grillo e mettere fuori dai giochi
per sempre Berlusconi e le destre, pensava di potersi presentare in parlamento
e chiedere la fiducia al buio.
Non fu solo un errore tattico
d’approssimazione, di sufficienza e d’orgoglio, ma come si vede sempre più man mano
che trascorre il tempo, esso costituì un madornale errore strategico che non
teneva conto di quali fossero i nuovi rapporti di forza e gli ambienti sociali
che li esprimevano. Bersani s’illudeva di avere un’effettiva libertà d’azione,
smentita poi anche per l’elezione del presidente della repubblica.
Sia Bersani che Grillo non avevano
intenzioni oneste in quella finta trattativa. E tuttavia al comico genovese va
riconosciuta come attenuante quella di non essere un politico, bensì un leader
improvvisato senza alcuna duttilità dialettica e tattica, incapace di tradurre
in realtà politica lo straordinario risultato elettorale. E invece Bersani è un
politico navigato, la sua sconfitta viene da lontano.
*
È pur vero che le ideologie strutturate
non possono rientrare nella tattica, poiché esse sono rigide e assolute, fanno
parte degli obiettivi massimi e strategici, e però danno un senso e una prospettiva generali. Nel frangente
storico, nella tattica, è viepiù necessario subordinare l’ideologia alla
Realpolitik. Nel farlo, però, e già prima dell’epoca di Berlinguer, il Pci ha
progressivamente liquidati i punti forti di quella che potremmo chiamare la sua
ragione sociale.
Il partito traeva la sua forza
quale rappresentante delle classi lavoratrici e nell’attenzione che poneva alle
istanze rinnovatrici e di sviluppo della società, alla cura con cui s’approcciava
al mondo della cultura. L’ideologia reggeva, pur oscillando, su una retorica di
matrice anticapitalista, in realtà d’impronta più antiamericana che anticapitalista,
ciò che in qualche modo si poteva contrabbandare per ideologia “comunista”.
Il riferimento, sempre più
simbolico e aleatorio, era l’Urss, il paese del socialismo realizzato, da cui
arrivava legittimazione e finanziamenti. E tuttavia chi si fosse azzardato a
prendere in considerazione una seria critica di quel gemellaggio finiva emarginato
o espulso dal partito. Del resto, nelle sue analisi il partito non s’era mosso
di un centimetro dalle vecchie posizioni staliniste, come mostrerò tra poco
citando un articolo di un esponente molto autorevole del partito.
Vale sempre la pena ricordare,
nelle parole di Rossana Rossanda, responsabile della politica culturale del Pci
a cavallo degli anni 50/60, la tipicità formativa del primo gruppo dirigente,
ad eccezione di Bordiga e pochi altri:
«Il marxismo era, sicuro, una filosofia e se si vuole un umanesimo, ma
non si poteva tirare in tutte le direzioni, fin fuori dalla sua origine, nella
crudele estraneazione del modo di vivere e produrre nel capitale: né si poteva
giocare allegramente Gramsci contro Marx, o addirittura Vico contro Gramsci.
Eravamo sempre là, al crocianesimo di ritorno nella formazione del gruppo
dirigente comunista.»
E del resto, scriveva sempre
Rossanda, Marx “nessuno lo leggeva”.
Mi chiedo quale linea teorica originale
ha prodotto il gruppo dirigente comunista nel dopoguerra, e quale contributo
teorico si segnala da parte di dirigenti come Berlinguer, Natta e Occhetto. Quale
nuova via al comunismo, “quella di uno sviluppo verso il socialismo che nasce
dalle battaglie per difendere e portare avanti la democrazia, quella di una
società socialista riccamente articolata e aperta ad ogni confronto”? Ma questa
è fuffa, nient’altro, robaccia per raccattare consenso elettorale negli strati
imborghesiti della società italiana.
E D’Alema e Bersani? Li avete mai
sentiti parlare di “società socialista”? Taccio volutamente di Veltroni perché non
è capace di pensiero proprio, e lascio per ultimo il nome di Napolitano, il
quale oggi stigmatizza l’“impoverimento
culturale, la smania di protagonismo, e l’ossessiva ricerca dell’effetto
mediatico”.
Si tratta dello stesso esponente
del Pci che in epoca abbondantemente poststaliniana, responsabile della
Commissione culturale del PCI, scriveva articoli laddove definiva “illegalità del periodo staliniano”
quelle che chiamava eufemisticamente essere state “massicce repressioni”. E richiamava l’attenzione sullo “sforzo di arricchimento e sviluppo della
democrazia socialista” in atto in quel momento in Urss.
E ammoniva contro “le rappresentazioni unilaterali e
tendenziose della realtà dell’URSS, le accuse arbitrarie, i tentativi di negare
l’immensa portata liberatrice della Rivoluzione d’ottobre, lo straordinario
bilancio di trasformazioni e di successi del regime socialista, tutto quel che
di nuovo sì è delineato nella vita sovietica a partire dal XX Congresso del
PCUS”.
Stretta nella morsa tra
velleitarismo e stalinismo, la sinistra italiana non poteva andare incontro a
sorte diversa che il proprio fallimento.
Nello specifico la radiografia legge l'intelligencjia, la dirigenza pregressa e 'attuale', poi c'è stata quasi tutta la base come suo neurone specchio. In un Comune toscano ,quando mi capita di passare, leggo come reperto filologico: 'via Unione Sovietica'.
RispondiEliminaQuesto per il più recente passato.
Come puro esercizio di ricerca scientifica sarebbe interessante conoscere quanti e quali intellettuali marxisti omologhi - con il presupposto di averne studiato e meditato il Caposcuola - oggi possano essere in grado di gestire qualsivoglia massa in proiezione politicamente e socialmente catartica. L'ambito è sempre teorico, si intende.
Nell'interessante volume di Guido Carli "Cinquant'anni di vita italiana" c'è la precisa e lucida consapevolezza, da destra, di cosa fosse in realtà il PCI al netto del linguaggio e dell'involucro pseudobolscevico di cui si ammantava, e di quale sarebbe stata la sua parabola storica.
RispondiEliminaPrevisioni poi puntualmente confermate dai fatti. Il PD di oggi, nelle sue linee essenziali, era già stato previsto - anche se probabilmente non era stata prevista la catastrofe antropologica che ne ha segnato e accompagnato la comparsa - da Aldo Moro.
Non l'ho letto. Hai sotto mano uno stralcio breve da sottoporci? È sempre interessante il punto di vista di quelle personalità.
EliminaMa dopo gli incontri di Teheran e di Yalta, e dopo che la seconda guerra mondiale era finita come è finita, quale poteva essere, di fatto, il destino di un partito comunista in Italia? Di parole, finzioni. Quello del partito comunista italiano fu un grande inganno che insaccò e soffocò imponenti energie umane, progetti, sogni, voti. Chi ha l'età per farlo ricorda le macchine targate AFI in giro per l'Italia. Ricordo bene, in un viaggio a Capri, l'impressione che mi fece la Forrestal ancorata nel golfo di Napoli con tutto il suo corredo intorno di cacciatorpediniere ed elicotteri nel cielo: era l'immagine cupa e minacciosa della nostra condizione di colonia militare americana, con tutto ciò che questo fatto in epoca di guerra fredda comportava.
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