domenica 3 gennaio 2010

In hoc signo vinces



Alle origini i preti cristiani dichiaravano che le idee religiose, diverse da quella cristiana, erano fantastici artifici della credulità popolare (oggi non lo possono più dire impunemente).  Trascinare gli Dei nella derisione serviva al cristianesimo per stabilire il proprio monopolio, ma esso non si presentava solo con le credenziali di esclusivo rappresentante dei prodotti di consolazione offerti dall’unica vera religione. Per affiancare la propria organizzazione a quella romana, al cristianesimo non bastava inzuppare il pane nella ferita esistenziale, inventare la sofferenza ontologica sapendo che gli individui tribolanti e angosciati preferiscono dar fede a un’incongrua ma consolante fandonia piuttosto che prendere atto di una solare ma disperante verità. Per farsi accettare come valido interlocutore dall’establishment, il cristianesimo doveva anzitutto proporre un proprio sistema di welfare alternativo a quello dell’impero irreversibilmente in crisi. Questa è la vera chiave del successo della “nuova” religione, il motivo dell’intuizione costantiniana e dell’astuta elaborazione scritturale eusebiana.

Non una divinità astratta, non il mito più clamoroso e controverso della storia dell’Occidente [1], bensì un Dio che si fa uomo, un’esistenza tangibile testimoniata da venerate scritture [2]. È Gesù, detto anche Cristo [3], proclamato figlio unigenito del dio Yahvè o Jahvé [4], l’irascibile e vendicativo Dio degli antichi Giudei, ossia di ciò che sarà l’invenzione del mito ebraico. Partorito da una giovinetta ebrea maritata a un ineffabile artigiano [5], ma resa gravida, non è ben chiaro come, da uno spirito, egli nacque e visse tra noi con lo scopo di salvarci dal peccato, anzitutto dall’azione di rivendica del peccato originale promossa da Dio, cioè da esso stesso, del quale peccato si sarebbero resi responsabili i nostri progenitori nel momento in cui non vollero più recitare la parte dei panda in un contesto di socialismo reale ante litteram.

Anche papa Wojtyla, nella Lettera apostolica novo millennio ineunte, per quanto riguarda questa favola, parla di “complessa redazione”. Non possono non venire alla mente le celebri parole dell’Anticristo di Friedrich Nietzsche, laddove scrive che persino se si ha per l’onestà la più modesta pretesa, si deve oggi sapere che un teologo, un prete, un papa, non soltanto errano, ma mentono ad ogni frase proferita.

Il resto della storia è noto: il figliolo di Jahvé avrebbe compiuto, durante la sua permanenza sul nostro minuscolo pianeta, prodigi clamorosi. Tuttavia la malvagità degli uomini presso i quali aveva scelto di nascere e vivere ebbe il sopravvento: lo mandarono al patibolo, così come spesso avviene alla grandezza incompresa. A ogni buon conto, risuscitato dalla morte, lo spettro di Gesù saliva al cielo con apoteosi di angeli, promettendo che un giorno sarebbe ritornato (prestissimo: Mc 9-1; sine die: Atti, 7-1) per instaurare il suo Regno che non avrà fine, indi per giudicare i vivi e i morti. Coloro che mostrano fede in questa sciarada saranno gratificanti con l’eterna beatitudine e quelli invece che si ostinano a scrivere queste cose nei blog saranno condannanti alle più atroci e imperiture sofferenze. In attesa dell’eschaton, il dio-uomo-morto-risuscitato diede mandato ai suoi seguaci di costituirsi in una società di persone e soprattutto di capitali la cui ragione sociale è appunto l’annuncio del Regno. Il mandato sarebbe tutto in questa frase: “tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”.

Un mandato tutto sommato innocuo, se non fosse causa di gravi conseguenze pratiche per coloro che vorrebbero tenersene lontani, anzi soprattutto per costoro. Il contadino che non rinnega i propri idoli tradizionali come minimo riceve una dose di bastonate (C.Th. 16.52.I). È proibita ogni cerimonia dell’antica religione a Roma con legge del 391; l’editto di Costantinopoli dell’8 novembre del 392 estende la proscrizione in tutto l’Impero di ogni atto o forma di culto tradizionale; nel 399 in Oriente si demoliscono i templi rurali e in Occidente tra il 407 e il 415 si procede alla confisca di tutte le rendite dei templi. Nel 423 Teodosio ordina la distruzione di tutti i templi e santuari che sono ancora esistenti, benché “non ne dovessero più esistere”. Ciò che succede al tempio-santuario-biblioteca di Serapide e alla filosofa alessandrina Ipazia è divenuto noto soprattutto di recente e varrebbe di per sé una giornata della “memoria” da celebrarsi in una certa piazza romana, se non altro a conferma che quello ecclesiastico è “pentimento” vero.

Invece i notai della Dei Verbum frodano il senso comune spacciando i Vangeli per una novella d’amore e perdono, un paradigma di fratellanza e bontà. In realtà i Vangeli – anche su questo versante – contengono tutto e il loro contrario (sull’amore quale essenza stessa di Dio ha già esaurito l’argomento Feuerbach). È vero che s’invita l’offeso a porgere l’altra guancia, che Gesù nel Getsemani ammonisce di non ricorrere alla spada, ma vi sono innumerevoli altri passi che dicono cose assai diverse. Per i cultori della materia: Mt. 11,20-25; 13,42-50; Lc. 10,15; 13,27; 22-13; 25-14.

Il cristianesimo avrebbe ben presto tradito l’originaria ragione sociale: Colui che è catechizzato nella parola stia in comunanza in tutti i beni col catechizzatore (Galati: 6-6), che in termini più prosaici stabilisce il predominio dei preti e il loro diritto di alzare le sottane alle parrocchiane, ma soprattutto di governare il senso delle “scritture”. L’organizzazione ecclesiastica assumerà compiti decisivi nell’àmbito degli organismi statuali, e anzi si costituirà essa stessa come un vero e proprio Stato, con a capo un monarca assoluto, spesso in contesa bellica con altri Stati. Un potere che per molti secoli perseguiterà in ogni modo coloro che non si prostrano all’autorità del papa e al giudizio di quella lieta combriccola di preti sadici che lo circonda [6].

Per gli ebrei il papismo decretò fossero confinati in ghetti, relegandoli in vili commerci e nell’usura, calunniandoli di ogni turpitudine, accusandoli di utilizzare “il sangue cristiano per levarsi il loro cattivo odore” e di altre stravaganze. Anche coloro che si dichiaravano sostanzialmente d’accordo, ma adducevano qualche mal di pancia rispetto alle teorie e non lievi pratiche dell’ortodossia, venivano sottoposti a “pragmatiche sanzioni”.
Scrive a tale proposito Carlo Cardia, docente di diritto ecclesiastico e notista del quotidiano Avvenire: « L’uomo occidentale sa che le chiese hanno spesso sostenuto il potere politico, e quasi sempre difeso i propri privilegi. Che hanno resistito ai cambiamenti richiesti dall’evoluzione storica, e che sovente hanno agito in senso opposto ai principi che proclamavano. Che nel giudicare i comportamenti umani sono state strabiche, condannando piccole colpe quotidiane e lasciando impunite gigantesche responsabilità di uomini e gruppi sociali » (in: Karol Wojtyla, Vittoria e tramonto, p. 53).

Il cambiamento che venne promuovendosi nei secoli dell’espansione europea e dello sviluppo della manifattura industriale, aveva il bisogno vitale di liberare le forze produttive e le potenzialità della scienza. Tale movimento rivelò l’usura delle antiche strutture, l’impossibilità che esse potessero rinnovarsi. Per la prima volta fu dichiarata l’agibilità di nuovi e universali diritti, un nuovo rapporto libero e volontario tra coscienza individuale e fede religiosa. È l’alba di una nuova epoca: l’uccello di Minerva divora il ratto teologico e con ciò il pensiero sedentario e parassita. Separazione dei poteri, suffragio universale, eguaglianza, parità uomo-donna, affrancamento e decolonizzazione non hanno radici nella religione, men che meno nel cattolicesimo nemico dichiarato di ogni modernità e libertà individuale.

L’aveva ben compreso Nietzsche quando scrisse che ogni divenire è, nei confronti dell’essere eterno, un’emanazione colpevole. Carlo Cardia, dal canto suo, prende atto che: «C’è qui un velo che copre gli occhi di Giovanni Paolo II e che gli impedisce di vedere la soglia antropologica raggiunta e dalla quale presumibilmente non si tornerà più indietro: la soglia della consapevolezza e della coscienza, con le quali anche il bisogno religioso viene avvertito, vissuto o declinato. Il Papa non sembra saper parlare un linguaggio adatto alle tante modulazioni della coscienza, e sembra anche psicologicamente lontano dalla complessità». Non si può non essere d’accordo con l’autorevole fonte cattolica.

L’azione del cattolicesimo reazionario trova ascolto ancora e solo in società politicamente spappolate e ostaggio di classi dirigenti culturalmente retrive e concluse, incapaci di farsi interpreti e promotrici di libertà e razionalità, ossessionate dal proprio potere castale. Classi dirigenti che per opportunismo non cessano di genuflettersi davanti alle sante reliquie, ridicole nei loro populistici motteggi e incuranti di impedire – con la loro permanente occupazione dei centri di potere politico e amministrativo – l’emergere di quello che c’è di buono nella società civile.

Le innumerevoli ignominie di cui il cristianesimo e in particolare il cattolicesimo si è reso capace in ogni epoca, l’intellighenzia nostrana si è sempre dichiarata disponibile a qualsiasi tipo di patteggiamento con la menzogna più durevole. “Dopo Cristo siamo diventati tutti cristiani”, recita il fantasma di Benedetto Croce, cui fa eco la versione sinistra del “perché non possiamo non dirci cristiani”, ignorando l’ammonimento brechtiano: la battaglia della massaia romana per il latte sarà sempre perduta dalla credulità.

Il cristianesimo, in primis quello romano, è cosciente che la crisi irreversibile dell’impero della merce, del capitalismo monopolistico, minaccia di produrre nuove e terribili cadute nella barbarie. Se oggi possediamo il più gran numero di oggetti poveri, il prete vorrebbe presiedere la lotta contro tale forma di alienazione, ma in tal senso può offrire solo un surrogato scaduto. Ponendosi come ultima risorsa metafisica di un mondo cadente e morente, aggrappandosi al relitto di una società che affonda, la Chiesa spera di salvarsi assieme a tutto ciò che possiede, e invece colerà a picco assieme.

[1] Se vi è stata una figura storica autentica dalla quale il successivo racconto evangelico ha tratto in qualche modo ispirazione, non lo sapremo mai con certezza. Su questo punto, inessenziale ai fini della credenza salvifica, si possono solo adombrare mere ipotesi fornendo cospicui guadagni ai loro autori e agli editori.

«Falsificazioni letterarie abbondavano nella letteratura greca e romana, e libri religiosi pagani, ebraici e cristiani, venivano spesso messi in circolazione sotto il nome di qualche antico personaggio illustre. Appena gli Ebrei impararono abbastanza il greco, cominciarono a fabbricare testi di famosi autori greci che glorificavano il popolo eletto. Già nel 150, i cristiani avevano confezionato le minute del processo a Gesù. Durante la grande persecuzione del 211, le autorità romane fabbricarono falsi atti dello stesso processo. Un secolo più tardi, Agostino conosceva le lettere apocrife di Gesù nelle quali questi appariva come un mago» (Elias J. Bickerman, Quattro libri stravaganti della Bibbia, Pàtron 1979, p. 144). Sulla fraudolenta facilità e competenza manipolatoria del cattolicesimo romano, si possono citare, oltre ai casi innumerevoli e molto noti, il fatto che nell’809 Carlo Magno fu costretto, a causa della nota vertenza sul “filioque”, a far incidere il Credo su delle lastre affinché non subisse repentine “trasmutazioni”.

Gran parte della “storiografia” cristiana e della costruzione del mito cristologico, prende avvio con Eusebio di Cesarea, negli anni cruciali di Costantino e del concilio di Nicea. Monsignor Duchesne ebbe a scrivere a proposito di Eusebio che “tutto è accompagnato in lui da così copiose reticenze, precauzioni oratorie e sottintesi, che spesso riusciamo a fatica a capire quel che vuol dire”. Della sua celebre opera, Vita Costantini, si contano 7 manoscritti, ma solo 3 effettivamente utilizzabili. Anche di questi mss. i più antichi datano dall’XI secolo. L’Heikel, uno dei massimi esegeti di Eusebio, constatò che tutti i mss. usati fino allora erano interpolati ed ebbe la ventura di conoscerne alcuni fino allora ignoti e fra essi il miglior manoscritto della Vita, noto come Vaticano 149. Per l’Heikel, Eusebio “non scrive soltanto per i suoi contemporanei, ma anche per i posteri”. Sull’autenticità dei documenti costantiniani, pubblicati nella Vita Costantini, in part. l’Editto ai Prov.li di Palestina (VCII, 24/42), gli storici sono tutt’altro che concordi. Per controdeduzioni: Ireneo Daniele, I documenti costantiniani della Vita Costantini, Università Gregoriana, 1938. Un’opera per lunghi tratti considerata fondamentale in tema di questi studi è quella del Crivellucci, Della fede storica di Eusebio ecc., Livorno 1888, pubblicata in appendice alla St. delle relazioni tra Stato e Chiesa.

[2] L’archeologia cristiana (gli studiosi citati in queste note sono tutti collegati al Pontificio Istituto di archeologia cristiana) ci segnala che del nome di Gesù, fino ad epoca piuttosto tarda, non c’è traccia. Si rintraccia l’acrostico IKZVS (ΙΧΘΥΣ), che in sé significa pesce e che secondo Friedrich W. Deichmann «è stato a lungo il simbolo principale del Cristo e ogni sua raffigurazione nell’arte della tarda epoca imperiale romana è stata interpretata, in un certo senso quasi obbligatoriamente, come il simbolo di Gesù Cristo, fissandone l’origine all’età apostolica. Così sono state riferite a Cristo molte immagini del pesce che invece possedevano tutt’altro significato, ossia non rappresentavano alcun simbolo di Gesù Cristo, né avevano alcun altro significato cristiano. Difatti allo stato delle nostre conoscenza il pesce divennne simbolo di Cristo solamente verso la fine del II secolo d.C.. Ma al contempo il pesce poteva simbolizzare anche il semplice fedele [...] Inoltre il pesce appare come significato eucaristico. [...] Tuttavia oggi sappiamo che il pesce in questo caso raramente aveva un legame diretto con Gesù Cristo, bensì raffigurava solamente un piatto scelto [...]» (Archeologia cristiana, L’Erma di Bretschneider, 1993, p. 152-53).

Interessante segnalare il modo di operare di certi archeologi del passato, per es. il famoso G.B. De Rossi: recuperati ed interpretati dei piccoli frammenti di iscrizioni, ne integrava le parti mancanti con testi e trascrizioni del VII secolo! Oggi possiamo leggere nella cripta dei papi della catacomba di san Callisto, un celeberrimo carme ricomposto con questa metodica (cfr. Carlo Pavia, Roma sotterranea, Gangemi 1998, p. 279).

[3] Ogni lettera dell’alfabeto ebraico e greco-latino, racchiude un aspetto misterico (per un interessante disanima: Bernard Dubourg, L’invention de Jésus, vol. I: L’hébreu du nouveau testament; vol. II: La fabrication du nouveau testament, Gallimard, 1987-1989). Altrettanto succede per l’uso simbolico delle lettere che nel cristianesimo hanno rappresentato la croce di Cristo. La lettera greca tau (T) corrispondeva più similmente al taw paleosemitico (+), l’ultimo grafema dell’alfabeto ebraico, che sviluppatosi successivamente in X ha contribuito a far associare, dai latini, questo nuovo segno alla crux decussata, nota anche come la croce di sant’Andrea (X). Tale corrispondenza, però, fu soltanto formale: le due lettere, infatti, furono associate non solo perché foneticamente simili, ma perché i loro morfemi richiamavano facilmente la figura della croce; si cercò, cioè, quel che più vi si avvicinava. La tradizione ebraica, com’è noto, enfatizzò il tau: Ezechiele lo vede segnato sulla fronte dei giusti che Dio voleva salvare dall’imminente flagello (9, 4). Anche nella letteratura sacra cristiana il tau appare come segno di salvezza: nell’Apocalisse i servi di Dio delle varie tribù d’Israele sono segnati con questo misterioso simbolo, il “segno divino” per eccellenza.

Il taw (t), l’ultima lettera dell’odierno alfabeto ebraico, corrisponde all’omega (Ω), l’ultima di quello greco, da cui le associazioni come lettere escatologiche che simboleggiano la signoria di Cristo sul tempo e sulla storia. Per l’ebraismo tale segno ebbe un’importante valore perché fu considerato come “segno di YHWH”, uno dei nomi del Signore, definito già dal profeta Isaia come l’Ultimo (44,6 e 48,12). È per questo motivo che il sommo sacerdote era consacrato con un’unzione a forma di X (Chi) greco: l’antico taw semitico, diventa il Cristòs, l’Unto che portava il nome di Dio. Il cristianesimo s’appropriò del taw paleosemitico e l’elaborò nel suo significato teologico. Il tau, quindi, avrebbe rappresentato per i teologi del cristianesimo il “segno del Salvatore”; ciò può trovare conferma nel fatto che per gli ebrei il taw aveva già una significazione sacra, infatti era la lettera con la quale iniziava la parola hrwt (Thoràh) e che indicava sia la Legge sia coloro che vivono secondo la Legge.

Nel 337 Eusebio scrive la cronaca della battaglia di Ponte Milvio, “come meglio potè”, sul racconto di Lattanzio, De mortibus persecutorum (“orribile opuscolo” proveniente da “una voce stridente di odio implacabile”, secondo A. Momigliano: Storiografia pagana e cristiana nel sec. IV d.C., nel vol. di AA.VV., Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel IV secolo, Einaudi 1968, p. 91). In essa si racconta del sogno di Costantino e del simbolo della croce sul vessillo delle sue truppe. Nella sua precedente Storia Ecclesiastica del 325, la favoletta non è ancora confezionata. Dopotutto la croce non era un simbolo esclusivamente cristiano. In precedenza i Galli avevano combattuto sotto la croce di luce del dio Sole (era una X con una linea ripiegata in cima e al centro di questa lettera), sicché per i soldati quello era semplicemente il loro làbaro. Questo tipo d’insegna fu posto molto in evidenza nella battaglia di Ponte Milvio perché tutti i romani (cristiani e pagani) dall'interno della città potessero nettamente distinguere le truppe di Costantino che stavano dando l'assalto dall’esterno.

Nell’opera fondamentale di Pasquale Testini, Archeologia cristiana, Terzo libro, Epigrafia, cap. II, Elementi tecnici, si legge: «Va però notato [che tutti i monogrammi] sin qui esaminati e perfino lo stesso segno di croce nella forma matura del sec. IV, formata da due semplici bracci trasversali incrociati, hanno numerosi precedenti grafici similari in vari segni egizi, semitici, ebraici e in genere delle civiltà precristiane del medio Oriente. Il cristianesimo, come fu suo costume, conferì loro un contenuto nuovo [...] I pochi monumenti superstiti, anteriori a Costantino, sono talvolta contraddittori e comunque non rivelano elementi sufficientemente sicuri, né consentono, almeno per ora, affermazioni cronologiche precise» (p. 361). Pertanto al simbolo della croce fu dato un contenuto nuovo, ma solo a partire dal IV secolo. Prima di allora l’archeologia non recupera nulla di significativo. Per Robin Lane Fox non esiste nell’entourage cristiana un segno del Chi-Rho (XP) che possa essere fatto risalire ad un’epoca precedente a quella costantiniana.

[4] « L’Eglise accepta en bloc tout le service religieux des synagogues» (L. Duchesne, Origines du culte chrétien, De Boccard ed., Paris 1925, p. 49). Fenomeno noto come translatio Hierosolymae.

[5] Per molto tempo la nascita del Cristo non fu celebrata, e, in seguito, venne descritta in modo estremamente vario, non era certa neppure la determinazione dell'anno della nascita (per non parlare poi della storicità dell'evento). Intorno al 200, secondo quanto si sa da Clemente Alessandrino, per alcuni era il 19 di aprile, per altri il 20 di maggio, mentre lo stesso Clemente credeva che la data esatta fosse il 17 novembre (Clemente Alessandrino, St. rom. 1, 21 e 147). Il natale veniva festeggiato nell’Egitto del II secolo il 6 di gennaio (11 Tybi), giorno della nascita del dio Eone, ovvero Osiride (vedi Plutarco: Iside e Osiride: 12, 355 E.). Fu solo dal 353 che la Chiesa indicò il 25 dicembre, nel quale ricorreva la festività di Mitra, l’invitto dio del Sole, e tale scelta si proponeva soltanto di cancellare dalla memoria popolare la ricorrenza “pagana”. L'Avvento, festa preliminare alla celebrazione del Natale, fu introdotto addirittura solo nel VI secolo. La nuova solennità ecclesiastica divenne ben presto assai popolare poiché trasformava e adeguava la festa pagana del solstizio, la festività dell’Eone, cioè della mitica rappresentazione della nascita del nuovo Sole. In tale circostanza, nella notte fra il 24 ed il 25 dicembre gli iniziati si raccoglievano in un adyton sotterraneo per compiere riti iniziatici intorno alla mezzanotte. All'alba i fedeli lasciavano in processione il luogo sacro, portando con sé la statuetta di un bambino, simbolo del Figlio del dio del Sole appena nato dalla Vergine, la Dea Cælestis, e non appena sorgeva l’alba recitavano in coro la formula liturgica: «La Vergine ha partorito, la luce cresce». Il racconto cristiano del Natale è talmente popolare, che molti credono che esso si trovi in tutti i Vangeli, mentre, al contrario, è presente soltanto in Luca, il quale ha rielaborato una tradizione veterotestamentaria e più ancora un patrimonio culturale “pagano”.

[6] Per quanto riguarda, p. es. le persecuzioni contro i valdesi e in genere gli altri eretici, essi vennero perseguitati essenzialmente per il fatto che volevano dare testimonianza diretta del Vangelo. Ancora nel 1689, cioè dopo sette secoli dalla grande persecuzione, le poche centinaia di superstiti valdesi, non lontano da Torre Pellice, furono circondati dalle truppe dei Savoia (sì, sempre loro) e dai loro alleati francesi. La “soluzione finale” non trovò compimento per il semplice fatto che ebbe termine l’alleanza franco-piemontese!

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