sabato 30 gennaio 2010

La scomparsa dello studioso Howard Zinn

L'instancabile talpa della storia americana 
di Ferdinando Fasce

Howard Zinn, il grande veterano della storia di sinistra negli Stati Uniti, è scomparso ieri a 87 anni. Era, prima che uno straordinario storico, una persona amabile, divertente, con il rigore e l'onestà stampate su un sorriso da ragazzo, come il ciuffo di capelli resi solo bianchi dal tempo. Ebbi la fortuna di vederlo all'opera un pomeriggio della primavera di una quindicina di anni fa, a Forlì. Zinn quell'anno era titolare della cattedra Fulbright a Bologna e venne a fare una lezione nella sede universitaria decentrata della città romagnola, nel mio corso di Storia americana. Si offrì gentilmente di fare qualcosa sul tema che insegnavo, l'evoluzione della presidenza. Ci mise pochissimo a incendiare l'uditorio, in modo avvolgente e soffuso, con un pacatissimo e appassionato discorso su come i movimenti avessero incalzato, con alterne fortune, i presidenti, da Lincoln a Clinton. Fulminò Kennedy riprendendo la brillante definizione di «emancipatore riluttante», da lui stesso data, a caldo, nel dicembre del 1962, con anni e anni di anticipo sulle ricerche condotte, in seguito, da tanti più giovani colleghi. Quel discorso mi persuase che senza una bella dose di società, classe, razza, genere tutta la politologia che mi ingollavo e facevo ingollare a quei ragazzi non serviva a niente. Aprì prospettive che io e la classe neppure ci sognavamo, mettendo in pratica quello che scrive nel suo Disobbedienza e democrazia. Lo spirito della ribellione (Il Saggiatore, 2003), cioè che lui cercava «nel passato saggezza e ispirazione per i movimenti che perseguono la giustizia sociale». E non si era mai preoccupato dell'«ossessione dell' 'obiettività'» perché era «giunto alla conclusione che dietro ogni fatto che viene presentato c'è un giudizio». Va da sé che invece poi, quando toccava un argomento, lo lavorava ai fianchi senza soste, con prove e controprove, rigirandolo da tutti i lati, come tanti presunti «scienziati», della storia o delle scienze sociali, non faranno mai.

Ho imparato ad ammirare il suo lavoro esattamente trent'anni fa, comprando, in una libreria di Pittsburgh, A People's History of the United States (da noi Storia del popolo americano, Il Saggiatore, 2005). Era la prima vera storia «alternativa» degli Stati Uniti, ha avuto innumerevoli ristampe, battendo ogni record di vendita e mostrando che ogni tanto la legge di Gresham non si applica, qualche volta la moneta buona ha la meglio su quella cattiva. Vi echeggiava l'acutezza dello studioso che non aveva mai dimenticato le sue origini, il fatto di essere figlio di un cameriere e di una casalinga ebrei immigrati, anzi ne aveva fatto la base del suo sapere. Un altro storico militante, James Green, definì il libro una «sinfonia per la gente comune», parafrasando il titolo del pezzo del musicista del New Deal Aaron Copeland, Fanfare for the Common Man. Il sesto capitolo si apre con parole che dovrebbero rileggere i protagonisti delle tristi cronache politiche sessiste di casa nostra: «Leggendo i soliti libri di storia, ci si può dimenticare metà della popolazione del paese. Gli esploratori erano uomini, i proprietari terrieri e i mercanti erano uomini, i leader politici erano uomini, e così i militari. L'invisibilità delle donne, il fatto che siano trascurate, è un segno della loro condizione sommersa».
Ma la sua vita non era fatta solo di libri e di schede di lettura. Zinn ha anche molto amato il teatro. Portano infatti la sua firma tre opere che sono state rappresentate nel corso del tempo in molti teatri in giro per il mondo. La prima piece, del 1976, è dedicata a Emma Goldman, esponente di primo piano dell'anarchismo e del pensiero libertario negli Stati Uniti che fu espulsa dagli Stati Uniti per lasua attività teorica, politica e per le sue prese di posizioni pubbliche contro il militarismo, a favore del movimento operaio e per i diritti dei migranti. La seconda opera teatrale, Daughter of Venus, è invece dedicata al clima di terrore e di sospetto dominante che negli Stati Uniti durante la guerra fredda. E sua è anche Marx in Soho, opera sulla vita di Marx, ma nella quale lo storico statunitense argomentava che il crollo del Muro di Berlino significava certo la fine del socialismo reale, ma il mondo unificato del mercato avrebbe rivisto sorgere nuovamente forti movimenti di critica al capitalismo. Howard Zinn ha diretto anche dei documentari, come quello The People Speak, una sorta di videoinchiesta sugli Stati Uniti durante il lungo inverno neoliberista.
 

In La guerra giusta (Charta, 2006), testo di una conferenza da lui tenuta a Roma nel giugno 2005 su invito di Emergency), Zinn esplorò la questione delle questioni, indicata dal titolo, senza lasciarsi andare a prediche o giaculatorie. Lo fece invece, in maniera sobria e pacata, mettendo a frutto la sua esperienza di storico, di militante contro la guerra, ma anche di ex membro dell'equipaggio di un B-17, un bombardiere pesante che, durante la seconda guerra mondiale, effettuò diversi raid e sganciò bombe «su Berlino, su altre città in Germania, in Ungheria, in Cecoslovacchia e anche su un piccolo villaggio della costa atlantica francese». «Io - dice - volevo dare il mio contributo alla sconfitta del fascismo... questa guerra, pensavo, non era per il profitto o per l'impero, era una guerra di popolo, una guerra contro l'indicibile brutalità del fascismo... Quella era una guerra giusta».

Poi, la lettura del resoconto di un giornalista sulla Hiroshima del dopo-bomba lo sconvolse. «Per la prima volta - dice Zinn - mi resi conto che non avevo idea di quello che facevo agli esseri umani quando sganciavo bombe sulle città in Europa... la guerra corrompe chiunque vi prenda parte» perché «avvelena le menti e gli animi della gente su tutti i fronti».



il manifesto del 29-1-2010

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