giovedì 21 gennaio 2010

Il tempo necessario



«Un fatto che ripugnava sia gli stranieri sia gli italiani sensibii era il disinteresse per gli impianti igienici. […] Per Carlo Emilio Gadda, il futuro romanziere, che a quel tempo era sottotenente nel 5° Reggimeneto alpini, la defecazione militare forniva uno spaventoso scorcio del carattere nazionale. “Merda di ogni dimensione, forma, colore, granatura e consistenza è sparsa ovunque in vicinanza del campo” scriveva con tono sconfortato “gialla, nera, cenere, nerarstra, bronzea, liquida, solida …”. Incredibilmente i soldati non si avvedevano di quanto rendessero inutilmente sgradevole la vita a tutti, se stessi compresi, non usando le latrine. Definiva l’incpacità cronica di cogliere gli effetti più ampi delle loro azioni “l’egotismo cretino dell’italiano”. Un soldato semplice britannico, che trascorse l’ultimo anno della guerra in Italia, era rimasto sconvolto dall’aspetto di un campo abbandonato: “Letteralmente una distesa di merda. Non ho mai visto uno spettacolo più disgustoso e mi sono domandato quali epidemie potesse covare tra tutti quegli escrementi e quelle carte sporche.
[…] Questi umili problemi non richiamavano l’attenzione di Cadorna».
(Tratto da: Mark Thompson, La guerra bianca, il Saggiatore, 2009, pp. 165-66).
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Art. 250.
Latrine.

§ 920. I miasmi delle latrine essendo assai nocivi alla salute del soldato, e fomentando in ispecie con somma facililà le oftalmie, la pulizia di esse deve essere invigilata con molla cura.

Sarà perciò vietato di gettarvi cenere, spazzature, paglia od altro che possa ingombrarne i canali, come anche di trallenervisi oltre il tempo necessario, e si procurerà anche talvolta di spandervi carbone di legna ridotto in polvere.

Siccome la sconcia abitudine d’insozzare il pavimento delle latrine renderebbe vana ogni altra cura e diligenza, i comandanti di Corpo daranno i provvedimenti più efficaci per estirparla, collocando anche soldati di piantone alla porta di esse, e castigando severamente coloro che trasgredissero le prescrizioni emanate in proposito.
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A 14 passi dei fasci d’armi sarà tracciata la prima linea delle tende dei sotto-uffiziali e soldati. 
Ad 11 passi dalla linea precedente sarà la seconda linea di tende. 
A 11 passi la terza linea. 
A 20 passi la linea delle cucine. 
A 14 la linea dello stato minore. 
A 14 la linea dei capitani, tenenti e sottotenenti. 
A 26 la linea dello stato maggiore. 
A 50 la linea dei vivandieri, carri e cavalli. 
A 40 quella delle latrine degli uffiziali. 
A 70 le latrine dei soldati.
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Fino a epoca recente, il giovane italiano chiamato alla leva militare doveva, di consuetudine, subire diverse iniziazioni, tra le quali il rito della “vestizione”. In pratica si trattava di fornirlo di una divisa e provvedere alle necessità del corredo. I sottufficiali addetti alle sezioni di casermaggio (così si chiamava la branca incaricata dell’incombenza) si assomigliavano tutti, nei modi urbani e per specchiata rettitudine.
Si iniziava dalla divisa: quella invernale consisteva di un paio di pantaloni e un giubbino di panno (la cosiddetta drop, verrà solo dopo), generalmente non della tua taglia, ma quella di un'altra recluta, con la quale, non di rado, si stabilivano delle permute. Il cappotto era di panno grezzo, lunghissimo, tutti uguali, sia per chi prestava servizio in un reparto alpino a Sterzing, così come per lo scritturale del distretto di Agrigento. Quindi la dotazione proseguiva con un paio di scarpe, di scarponcini e di anfibi. Il basco d’ordinanza era una enorme padella, di panno, il cui scopo precipuo era quello di farti sudare copiosamente d’estate e di apparire ridicolo sempre (perciò se ne acquistava – certamente non con le 158 lire giornaliere della “decade” –  uno più piccolo e di migliore fattura, “fuori ordinanza”, alimentando il florido mercato parallelo).
L’assetto del soldato, vestito ed equipaggiato di tutto punto, era dunque il seguente: uniforme di panno, elmetto, cappottone, giberne e cinturone, zainetto da combattimento, borraccia, maschera antigas, anfibi, mastodontica baionetta e fucile Garand. Un bersaglio da manuale.
Quindi le camicie, tre (estate-inverno: solo dopo, molto più tardi, si arrivò alle maniche corte da indossare dopo il fatidico 2 giugno). Ovviamente non mancavano le mutande, nel numero massimo di tre paia, regolarmente registrate nella tabella corredo personale, da riconsegnare, assieme al resto, all’atto del congedo, pena l’addebito (non proprio modico). Si trattava di boxer bianchi, eterei, di popeline. La carta igienica, di norma, non mancava e nemmeno il sapone. Però bisogna considerare che: 1) non c’era assolutamente la possibilità di lavare e asciugare in proprio qualsiasi tipo d’indumento; 2) la doccia, campale, era prevista una volta la settimana (questo ancora nei primi anni Settanta; mi risulta che in seguito qualche box doccia venne installato nei locali dei cessi). Perciò, chi poteva permetterselo e ne avvertiva il bisogno, ricorreva ai bagni pubblici, il “diurno”. Non parliamo poi del bidet, sanitario sconosciuto e del resto poco adatto all’uso promiscuo. Quindi, non restava che arrangiarsi alla buona e portando da casa altri indumenti, dato che il cambio della biancheria mandata in lisciviatura avveniva (non sempre con regolarità) una volta la settimana. Restava quindi pacifico il fatto che secondo le teste pensanti dello stato maggiore dell’esercito, un soldato, un giovane chiamato a difendere la patria, ancora in anni a noi recenti, si sarebbe dovuto cambiare la biancheria intima, bene che andasse, saltuariamente. All’insegna delle migliori tradizioni, quindi.

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