martedì 12 gennaio 2010

Civiltà e barbarie


Nel 452, Attila, a suo tempo divenuto capo delle tribù unne, invase l’Italia settentrionale. Tale epopea ha assunto nei secoli i tratti della leggenda, dapprima la terrorizzata fantasia latina e poi quella ecclesiastica attribuirono ad Attila tutte le rovine di cui era sparso ed ingombro il suolo delle antiche province romane, accusandolo di ogni nefandezza ed eccesso, ponendo a suo carico persino l'omicidio di sant’Orsola e lo sterminio delle undicimila vergini (!), sebbene già la data favolosa della loro partenza dalla Bretagna fosse stata stabilita un secolo prima della nascita del condottiero (1). Secondo le leggende francesi, il nome di Flagellum Dei fu dato ad Attila da un eremita, al quale l'Unno rispose glorificandosi del nome: Stella cadit, tellus fremit, en ego malleus orbis. Nelle leggende italiane, il nome gli venne imposto da san Benedetto, ma questi non viveva nel 451, mentre nella tradizione dell’Europa germanica noi lo vediamo paragonato ad Artù per gentilezza e a Salomone per sapienza. Certo, Attila e gli Unni non furono delle mammolette, ma nemmeno più crudeli e feroci dei loro contemporanei, e in quanto guerrieri specializzati, come molti altri, non fecero la guerra in modo più spietato delle legioni romane. A tale riguardo, è utile rammentare che all’epoca di Giulio Cesare la conquista della Gallia costò alle popolazioni locali oltre un milione di morti, con episodi di sterminio agghiaccianti.

Plinio il Vecchio, nel settimo libro della Storia naturale, ci racconta come il civilissimo e nobile Cesare fece uccidere un milione e 200mila persone allo scopo di far bella figura in Gallia (Plutarco, più benevolo, certifica un milione tondo). Cominciò con 200mila Elvizi, il cui torto maggiore era quello di non assecondare i suoi piani; quindi decine di migliaia di Aquitani e affini; poi mise a morte tutto il senato dei Veneti (popolazione gallica) che gli si era arreso a discrezione; continuò sterminando tutto il popolo degli Eburoni e per soprammercato 180mila Usipeti e Tencterii che si trovò tra i piedi; a Bourges massacrò, per vendetta e senza riguardo per sesso ed età, 40mila abitanti. Nel ricevere a colloquio i capi germanici li fece “trucidare a tradimento e quindi assaltò gli avversari sbandati e senza guida, ed estese indiscriminatamente il genocidio a tutti, donne e bambini inclusi”.

L’invasione unna in Italia invece culminò con la caduta dello strategico municipio di Aquileia (tra l’altro il più importante centro di lavorazione e di smistamento commerciale delle gemme e delle ambre), ma anche di Pavia e Milano. La permanenza unna ebbe in verità una durata assai breve, soprattutto, ma non solo, per effetto delle epidemie e della fame che falcidiarono l’Italia settentrionale e decimarono gli invasori, già prostrati dalla pesante sconfitta subita l’anno prima ai Campi Catalaunici (Gallia) ad opera di Flavio Aezio (2). Non bisogna quindi credere, tra l'altro, che le popolazioni venete che si rifugiarono in tale occasione nelle lagune non rientrassero, svanita la minaccia, alle proprie case, ai campi, agli opifici e botteghe, insomma alle proprietà (sebbene devastate e depredate dagli invasori) e alle attività di sempre. Passato il pericolo dell’invasione, le città romane fecero quasi a gara e si tennero in onore di esser state visitate dal nemico e di averne per qualche via trattenuto la foga irrompente, se non altro perché trattandosi di Attila, del flagello della provvidenza, era da sperarsi che coloro i quali avevano una volta provata l’ira di Dio, sarebbero stati assolti da un’ulteriore punizione.

(1) L’insigne medievalista di origini bassanesi Gina Fasoli, ci ricorda, nel suo insuperato saggio sulle invasioni ungare, come gli eventi del X secolo fossero attribuiti talvolta da alcuni scrittori e letterati ad Attila stesso (cfr. Le invasioni ungare in Europa nel sec. X, Firenze, 1945, pp. 20-22): «Ogni ricordanza insomma di devastazione, di sangue, di stragi si raccoglieva pei Latini intorno al nome esecrato di Attila. […] via via che la sua figura si andava smarrendo fra le nebbie del passato, sempre più sulla sua memoria già odiata si addensavano tutte le altre sanguinose memorie dei più feroci fra gli invasori (Alessandro d'Ancona, Attila flagellum Dei: poemetto in ottava rima riprodotto sulle antiche stampe, Pisa, 1864, pp. XI-XII)».

Uno dei miti più noti relativi agli Unni è quello raccontato dallo storico Ammiano, secondo cui essi “si nutrono di radici di erbe selvatiche e di carne semicruda di qualsiasi animale, che riscaldano per un po’ di tempo tra le loro cosce ed il dorso dei cavalli”. Ammiano in persona molto probabilmente non aveva in vita sua mai posato gli occhi su un unno e alcune delle informazioni che lo storico – per altri versi rigoroso e attendibile – aveva ottenute di seconda mano da ufficiali dell’esercito, funzionari ed altri personaggi venuti in contatto con gli strani “nuovi” barbari, non erano veritiere, compresa quella famosa della carne cruda che gli Unni avrebbero scaldato – per renderla più commestibile – portandola fra le selle e il dorso dei loro cavalli. Benché questa storia fosse stata creduta a lungo e venga anche raccontata in riferimento agli Ungari del IX e X sec., dei Tartari del tempo di Tamerlano, noi sappiamo adesso che è falsa. Si tratta però di un errore onesto, uno dei non rari cliché sui barbari, probabilmente dovuto al fatto che gli Unni, tra i primi a far uso di una sella vera e propria, per curare i cavalli piagati dallo strofinìo della sella, usavano allo scopo delle fette di carne cruda (E.A. Thompson, St. di Attila e degli Unni, Firenze 1963, p. 20-21; G. Fasoli, cit., p. 30).

La leggenda ancor più celebre, invece, riguarda l’incontro tra il vescovo di Roma, Leone, e il capo degli invasori Unni. Racconta che a far decidere Attila di ritirarsi dall’Italia fosse proprio l’intervento del prelato e la comparsa alle sue spalle dei santi Pietro e Paolo (l’eponimo affresco raffaellesco è in tal senso un esempio mirabile ed eloquente di questo genere di propaganda). Anche in questo caso si trascura il fatto non certamente irrilevante che il vescovo era parte di un’ambasciata composta anche da altre due autorevolissime personalità: Gennadio Aveno, un senatore della potente famiglia degli Ancii, e da Trigezio, dipolomatico anziano ed esperto, portavoce del generale Aezio. Questa ambasciata era stata fornita di un ingente quantitativo d’oro quale donativo destinato ad Attila, il quale ne aveva un gran bisogno dato che l’imperatore di Costantinopoli aveva cessato di fornirgli l’abituale finanziamento e anzi stava marciando con le sue truppe contro quelle unne, così come del resto si diceva stesse facendo Aezio con la sua armata.

(2) La battaglia dei Campi Catalaunici (o Catalauni, e detti anche Maurici, oppure battaglia di Châlons) si svolse il 20 giugno 451 in una pianura della Gallia nei pressi dell'odierna Châlons-en-Champagne. In essa le truppe del generale romano Aezio, reclutate soprattutto tra i barbari e affiancate dagli alleati Visigoti di Teodorico I, sconfissero e circondarono gli Unni di Attila. La vittoria romana non fu decisiva: Aezio non volle sfruttarla al massimo, temendo che il loro annientamento avrebbe, per contro, accresciuto la potenza visigota in Occidente. Frustrato nei suoi piani di saccheggio in Gallia, l'anno successivo Attila rivolse il suo esercito contro l'Italia. Perciò se Attila salvò una parte delle sue forze e la sua stessa vita, ciò fu dovuto al calcolo politico di Aezio.

Nessun commento:

Posta un commento