«L'accoppiamento bisogna pure che glielo lasciamo. – Bisogna pure che se lo godano, un pezzetto di vollutà – altrimenti s'impiccano all'albero più vicino. [1]»
Per i parrocchiani della cattedrale di Feltre la notizia è di quelle forti: don Giulio Antoniol, arciprete, vuole lasciare il sacerdozio e si è già trasferito, in tonaca, nell’abitazione della donna che ama e dalla quale aspetta un figlio. La signora, “una brunetta albanese dai modi gentili e dall’aspetto semplice”, “diventata cattolica due anni fa, battezzata proprio da don Giulio”, è sposata e ha un figlio. Il marito, dal quale si è separata il 3 dicembre 2009, non sembra gradire il clamore e invoca “maggior discrezione, riservatezza e un po’ di pudore in una vicenda di cui col tempo si è fatto una ragione ma che, come si può comprendere, non è stata facile da accettare e sopportare”. Ce l’ha in particolare con don Giulio Antoniol, il quale rilascia dichiarazioni e interviste, coadiuvato dalla propria mamma.
Per i parrocchiani della cattedrale di Feltre la notizia è di quelle forti: don Giulio Antoniol, arciprete, vuole lasciare il sacerdozio e si è già trasferito, in tonaca, nell’abitazione della donna che ama e dalla quale aspetta un figlio. La signora, “una brunetta albanese dai modi gentili e dall’aspetto semplice”, “diventata cattolica due anni fa, battezzata proprio da don Giulio”, è sposata e ha un figlio. Il marito, dal quale si è separata il 3 dicembre 2009, non sembra gradire il clamore e invoca “maggior discrezione, riservatezza e un po’ di pudore in una vicenda di cui col tempo si è fatto una ragione ma che, come si può comprendere, non è stata facile da accettare e sopportare”. Ce l’ha in particolare con don Giulio Antoniol, il quale rilascia dichiarazioni e interviste, coadiuvato dalla propria mamma.
Sostiene don Antoniol che la sua non è una crisi di fede, ma l’esito di una mancanza di completezza «che la sola vita pastorale e spirituale non mi dava». «Un vuoto, una mancanza, con cui ho dovuto fare sempre i conti, fin da quando presi i voti, vent’anni fa», ma si affretta a precisare che lui non farà come don Sante Sguotti di Monterosso, anzi, il signor Sguotti: stessa età, stessa scelta. «Io però non condivido quel che ha fatto Sguotti - precisa don Giulio -. Cioè, in una situazione come la nostra non puoi pestare i pugni contro la Chiesa e pretendere di abolire l’obbligo del celibato per i preti. Noi abbiamo fatto un voto di fedeltà che ha le sue regole. Nel momento in cui veniamo meno alla parola data possiamo solo fare penitenza. Ecco, io non credo alla Chiesa dei peccatori di Sguotti che vorrebbe continuare a fare il prete e celebrare. Credo piuttosto a quella dei penitenti. Io vorrei ritirarmi da buon fedele, da membro della Chiesa, non da sacerdote. Sento molto la colpa per non aver rispettato la promessa e non rivendico nulla. Anzi, ho chiesto la dispensa al Papa. La mia pratica è in Vaticano». E se non condivide le posizioni del ribelle di Monterosso, figuriamoci quelle di monsignor Milingo: «Quello è un caso patologico».
Don Giulio si dichiara penitente per aver infranto il voto, non già per aver sfasciato una famiglia (faciamocene una ragione, anche i preti sono figli di Caino). E gli torna utile fare il moralista e dar lezioni, denunciando la pretesa di don Sante Sguotti di voler continuare a fare il prete, per non parlare di quel mattacchione di Milingo. Eppure dovrebbe saperlo che «il celibato è cosa grata a Dio, come si ha da diversi passi dell'antico testamento, ma non per questo ne consegue, che sia riprovato il matrimonio. La verginità fu considerata come sagra anche dai gentili, e perciò tanto la Chiesa orientale, quanto la occidentale imposero ai ministri del culto l'obbligo di un qualche celibato. Tuttavolta, sebbene il celibato sia più perfetto del matrimonio, non è compreso nel diritto divino pegli ordini sagri, cioè non vi è legge divina, che vieti ordinare in preti persone aventi moglie, nè ai preti di ammogliarsi. Certo, che il celibato è consentaneo alla ragione ecclesiastica e politica, e lungi dall’essere dannevole alla società, torna anzi a grandissimo suo vantaggio (Gaetano Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, vol. XI, pp. 57-58) ».
Questo è quanto scrive il primo aiutante di camera dell’allora vigente papa Gregorio XVI, e trova evidenza palmare nel mitico san Paolo, le cui epistole furono redatte al più presto nel II secolo:
«È degno di fede quanto vi dico: se uno aspira all'episcopato, desidera un nobile lavoro. Ma bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. Sappia dirigere bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi con ogni dignità, perché se uno non sa dirigere la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio? Inoltre non sia un neofita, perché non gli accada di montare in superbia e di cadere nella stessa condanna del diavolo. È necessario che egli goda buona reputazione presso quelli di fuori, per non cadere in discredito e in qualche laccio del diavolo (Prima lettera a Timoteo )».
Evidentemente nel II sec. preti e presbiteri a volte non solo erano sposati, ma risultavano ammogliati più di una volta. A ciò vale con ogni evidenza il richiamo e la puntualizzazione paolina, anche in considerazione della grande facilità con la quale all’epoca si concedeva il divorzio e la diffusa pratica della poliginia in uso tra gli ebrei [2].
Lo stato della disciplina ecclesiastica sulla fine del III secolo, quale si trova esposto dalle costituzioni apostoliche e dai canoni, era il seguente: i vescovi ed i sacerdoti potevano conservare le mogli che avessero avuto anteriormente alla loro ordinazione sacerdotale, ma una volta entrati negli ordini sacri, non potevano più ammogliarsi. Pertanto ogni pretesa di riportare il celibato alle origini apostoliche, è destituito di ogni fondamento sia dal lato documentale, sia dal lato dei comportamenti effettivi e storicamente probanti.
Le cose, sulla carta, cominciano a mutare a partire dal IV secolo. In quel momento il cristianesimo è un’organizzazione matura, molto articolata ed importante che lotta per il riconoscimento e il potere, parallela e concorrente all’aristocrazia pagana, diretta da una cerchia di personaggi che rappresentano la punta di diamante della sua “teologia politica” ( è in questo periodo che viene fabbricato e sistematizzato – dando vita ad una storia millenaria di controversie – il corpus dottrinale cristiano, sottraendo l’esclusiva agli ebrei. Con l’intesa tra Costantino e i circoli più qualificati delle gerarchie ecclesiastiche, tale organizzazione diviene attiva protagonista di un progetto di riassetto dell’esistente, di “un nuovo stile di conduzione politica urbana” [3].
Ero un ceppo di fico, un legno buono a nulla,
quando il mio falegname, incerto se fare di me
Priapo od uno sgabello, finì col scegliere il dio ...
Ricapitolando: nei primi tempi della Chiesa si ordinavano ovunque le persone ammogliate senza alcuna obbligazione. Nel IV secolo si cominciò, in via di consiglio, ad esortare i vescovi, preti e diaconi che avevano moglie a conservarsi continenti; dal consiglio si passò al precetto e per meglio accertarne l’esecuzione si ordinò che i vescovi, preti e diaconi ammogliati dovessero o lasciare il ministero o separarsi dalle loro mogli, come si vede nella decretale di papa Silicio ad Imerio, Tescovo di Tarragona, scritta nel 385. Ma questa specie di divorzio induceva, come detto, molti contrasti e resistenze, e trovava ovviamente l’opposizione da parte dei coniugi; si venne pertanto alla determinazione, nel VI secolo, di non ordinare al diaconato od al presbiterato chi avesse moglie. Così nella Chiesa latina; ma nella Chiesa greca si ritenne sempre che un uomo ammogliato o laico o solamente negli ordini minori, potesse essere promosso al diaconato ed al presbiterato e tenersi la moglie, uso sancito definitivamente dal concilio di Trullo nel 692.
«L’obbligo del celibato fu così spesso ricordato dai concili e dai papi del V -VII sec. che questa insistenza lascia immaginare numerose infedeltà al principio (Odon Vallet, Piccolo lessico delle idee false sulle religioni, ediz. Paoline, p. 38)».
Al tempo nostro si è scelta la strada dell’ipocrisia invereconda. Dalla lettera enciclica Sacerdotalis Cælibatus del 24 giugno 1967:
«La scelta del celibato non comporta l'ignoranza e il disprezzo dell'istinto sessuale e dell'affettività, il che nuocerebbe all'equilibrio fisico e psicologico del sacerdote, ma esige lucida comprensione, attento dominio di sé e sapiente sublimazione della propria psiche su un piano superiore. In tal modo, il celibato, elevando integralmente l'uomo, contribuisce effettivamente alla sua perfezione […]. È vero: il sacerdote, per il suo celibato, è un uomo solo; ma la sua solitudine non è il vuoto, perché è riempita da Dio e dall'esuberante ricchezza del suo regno. […] A volte la solitudine peserà dolorosamente sul sacerdote, ma non per questo egli si pentirà di averla generosamente scelta».
L’astinenza sessuale, dice il papa, nuoce all'equilibrio fisico e psicologico del sacerdote. Quali conseguenze ne trae? L’esigenza di un attento dominio di sé e sapiente sublimazione della propria psiche su un piano superiore. Il piano superiore, come conferma la storia e la cronaca, è il luogo di numerosissimi episodi di violenza sessuale a danno di minori, o di pratiche sado-masochistiche e altre "devianze". Con i papi bisogna essere prudenti, poiché sono inviati da dio.
Intanto don Giulio Antoniol continua, in “attesa delle carte da Roma”, a vestire da prete e probabilmente a ricevere gli emolumenti spettanti. Un altro posto da prete poi glielo troveranno, così come accade per molti membri della Chiesa nella sua stessa situazione. «A Roma si comportano con doppiezza: a parole riconoscono il nostro secolare diritto ad avere preti sposati, ma nei fatti lo avversano. Ci appoggiò il cardinale olandese Willebrands, un uomo veramente ecumenico, ma oggi ci ritengono di nuovo un pericolo: la breccia che può far crollare il bastione».
***
[1] Oskar Panizza, Il concilio dell'amore, atto primo.
[2] Fatto confermato dalle decisioni sinodali dei primi secoli per quanto riguarda le seconde nozze, ossia per i preti che si risposavano. Il sinodo di Elvira, del 305, considera incompatibile con le seconde nozze l’amministrazione dei sacramenti e la celebrazione dei sacri riti. Quello di Neocesarea, nel 314, proibiva ai sacerdoti di onorare di loro presenza le feste se fossero passati a seconde nozze, ma il sinodo di Laodicea, tenuto nel 352, ritenne però di far uso di maggiore indulgenza. Nel 484, papa Gelasio si sentì in obbligo di rammentare ai fedeli come tali seconde nozze non fossero proibite per i laici. Con tutto ciò, però, questa restrizione non venne imposta al clero senza resistenza.
[2] Fatto confermato dalle decisioni sinodali dei primi secoli per quanto riguarda le seconde nozze, ossia per i preti che si risposavano. Il sinodo di Elvira, del 305, considera incompatibile con le seconde nozze l’amministrazione dei sacramenti e la celebrazione dei sacri riti. Quello di Neocesarea, nel 314, proibiva ai sacerdoti di onorare di loro presenza le feste se fossero passati a seconde nozze, ma il sinodo di Laodicea, tenuto nel 352, ritenne però di far uso di maggiore indulgenza. Nel 484, papa Gelasio si sentì in obbligo di rammentare ai fedeli come tali seconde nozze non fossero proibite per i laici. Con tutto ciò, però, questa restrizione non venne imposta al clero senza resistenza.
Una volta saldamente e chiaramente stabilito questo principio che proibiva le seconde nozze al clero, era naturale che tra il clero e il laicato si imponesse una distinzione ancor più netta per ciò che riguarda i vincoli matrimoniali, giacché il celibato attribuiva al clero una parvenza di maggiore santità e gli spianava la strada alla venerazione da parte del popolo. Quindi è ben facile comprendere come, in breve, si tornasse a rivivere l’antica regola levitica, per la quale il prete non poteva unirsi altro che ad una vergine; ed infatti non più tardi del 414, Innocenzo I si duole fortemente che gli uomini maritati ad una vedova siano innalzati agli onori dell’episcopato, e Leone I dedicò parecchie sue epistole ad inculcare questa norma. In brevissimo tempo da questa regola si trasse un corollario secondo il quale il prete che avesse in moglie una donna macchiata di adulterio era obbligato a cacciarla; questo corollario, poi, secondo quanto autori posteriori misero bene in luce, offriva ragioni valide a coloro che sostenevano la necessità assoluta del celibato del clero.
[3] Il più antico
tentativo della chiesa, di cui si abbia ricordo, fatto allo scopo di
introdurre delle restrizioni in materia di celibato, venne dal sinodo
di Elvira (Spagna) del 305, il quale ebbe a dichiarare (can. 33) nel
modo più positivo che tutti coloro i quali ambiscono al ministero
dell’altare devono vivere estranei ad ogni commercio con le loro mogli
(cosa che non implica l’essere scapoli). Esso fece, inoltre, tutto il
possibile per por fine agli scandali delle agapetæ, ossia le
concubine del clero; scandali che questo canone parve fatto apposta per
incrementare tale situazione. Il sinodo di Ancira (314), capitale della
Galazia, nel can. 10 stabilisce la sospensione di quei diaconi che al
momento dell’ordinazione hanno assunto l’obbligo del celibato, si
decidono successivamente in favore delle nozze; quello di Arles (nel
314) nel can. 29 ripropone l’obbligo della continenza assoluta per il
clero sposato. Il sinodo di Neocesarea in Ponto (314-19), stabilì la
deposizione del prete il quale si sposasse dopo essere entrato negli
ordini. Ma con questo non si volle mettere alcun limite ai rapporti tra
quelli che si erano ammogliati quando si trovavano ancora nei gradi più
bassi del clero e le loro mogli. Il sinodo di Cartagine (349) nei cann.
3 e 4 dispone della continenza e dell’astinenza dalle donne dei diversi
ordini di chierici. Il sinodo di Laodicea (tra il 341-381), in Frigia,
nei cann. 24, 33 e 53 proibisce ai chierici di frequentare osterie, di
recarsi ai bagni contemporaneamente alle donne (questa proibizione è
rivolta anche ai laici), e in occasione delle nozze o dei banchetti di
abbandonare il proprio posto all’inizio dei giochi.