martedì 5 ottobre 2021

Modesta proposta

 

Le nuove generazioni sono state svezzate con giochi per computer e reality show, indottrinate da un’informazione spazzatura, complice la pandemia che ha fatto assurgere la “scienza” al rango di fede con un esercito di sacerdoti televisivi. Lady Gaga e Kim Kardashian insieme hanno più seguaci su twitter rispetto al totale dei voti espressi in qualsiasi tipo di elezione, per dire del plastico contrasto con il vieto chiacchiericcio post elettorale di questi giorni.

Ecco perché lancio la mia modesta proposta, ossia quella di affidare a degli economisti il compito d’educare le masse al funzionamento dell’economia e dei mercati. Tutte le sere in televisione, salvo nei week-end e durante l’estate, così come s’è fatto con gli esperti in pandemia. In tal modo gli spettatori, inchiodati alle loro poltrone per il grande interesse, potrebbero apprezzare le differenze tra le diverse scuole del pensiero economico, quindi rendersi conto di quale confusione regni nel disinvolto mondo degli economisti. Al pari dell’asettico mondo dei virologi, che hanno sconsigliato di salutarci dandoci la mano e di limitarsi a impattare le nocche delle dita, notoriamente virus repellenti (come causticamente ha rilevato un amico di cui taccio in nome ai sensi del V emendamento).

Economisti che in ogni luogo del mondo hanno sudato sugli stessi libri di testo formattati. Alcuni, quarant’anni fa, quand’erano studenti, si sono spinti a leggere Das Kapital in edizione cofanetto. Le prime due pagine. Piketty ha ammesso candidamente di non aver letto neanche quelle (*).

Le lezioni potrebbero cominciare ab ovo, con lo scambio. Dal commercio derivano crescita e prosperità. È opportuno far seguire un breve cenno sulla produzione per deprecare il “costo del lavoro”, i salari degli altri sempre troppo alti. Nondimeno il mercato, ahimè, vive di sconvolgimenti, e va quindi regolamentato. Gli economisti spieghino come farlo. Alcuni possono dire una cosa e gli altri il suo esatto contrario, il giorno dopo invertendo le parti, rimanendo seri e convincenti in entrambi i casi.

Non è per ignoranza, non è per stupidità, sebbene non ci sia da farsi troppe illusioni sulla loro capacità di comprendere le cose per ciò che sono e non per come appaiono, ma è la posizione di classe e i relativi interessi personali a impedire agli economisti, e a tanta gente che per gli stessi motivi segue lo stesso incantesimo borghese, di prendere atto della realtà. Ossia che la legge del valore agisce come cieca legge di natura nei confronti di singoli agenti e genera sì un certo equilibrio sociale in mezzo alle sue fluttuazioni accidentali, e però solo fino a quando la contraddizione che costituisce il fondamento del modo di produzione capitalistico, vale a dire la divaricazione tra valore di scambio e valore d’uso, non esplode producendo la crisi.

Scriveva Sebastiano Maffettone, recensendo domenica scorsa un libro di Massimo Mugnai: «Marx centra la sua teoria del valore sull’idea di valore-lavoro ma è proprio questa che ha ricevuto le critiche più devastanti [sic!]. Questo getta un’ombra sull’annosa [per chi?] questione della trasformazione dei valori in prezzi».

I professionisti dell’ideologia hanno come compito principale, quando si tratta di Marx, di screditare la teoria del valore (non già la “teoria del valore-lavoro”, espressione che Marx non ha mai usato, mutuata invece da un suo critico borghese, ossia da Eugen Ritter von Böhm-Bawerk).

Sta di fatto che per Marx “il punto di partenza così come il punto d’arrivo” della sua indagine scientifica non è né il valore, né il valore di scambio, né il lavoro, bensì il capitale, e dunque l’esame in tutti i suoi aspetti della “merce singola come forma elementare” della ricchezza della società in cui domina il modo di produzione capitalistico.

E poi, Maronna mia, questo riferimento alla presunta critica sraffiana a Marx è una regressione agli anni 60 e 70 del secolo scorso, che nessuna persona seria, anche dal lato della critica borghese, prende più sul serio. Il libro di Sraffa era ritenuto, dai suoi discepoli e dai suoi esegeti, un contributo alla “dimostrazione” dell’erroneità e dell’irrilevanza della teoria del valore marxiana. Si tratta di una critica presunta, dicevo, proprio perché le esercitazioni logico-matematiche del professore di Cambridge prescindono da essa e finivano con lo spiegare i prezzi mediante ... i prezzi.

Il modello di Sraffa, perché depurato da qualsiasi riferimento alle leggi di movimento dei sistemi economici concreti, reali, si rivela come un tentativo di restituire alla teoria economica borghese, sempre più in crisi, una parvenza di solidità e di scientificità grazie all’uso “neutrale” e “obiettivo” delle formule algebriche. Come se le contraddizioni reali e oggettive del modo di produzione capitalistico si lasciassero esorcizzare dai numeri e dalle espressioni matematiche.

D’altra parte, non era stato Gramsci stesso a definire la formazione intellettuale dell’”amico” Sraffa “normativa e kantiana, non marxista e non dialettica”?

Scriveva ancora Maffettone a proposito del libro di Mugnai: «lo sfruttamento – il concetto forse centrale di Marx – non discende dal modo di produzione ma da un’ingiustizia distributiva. Ipotesi questa di fondamentale importanza, che con ogni probabilità non sarebbe piaciuta a Marx. Anche perché se ne può trarre la conclusione che l’analisi di Marx poggi più su fondamenti etici che “scientifici”».

Non sarebbe piaciuta a Marx perché tale ipotesi falsa da cima a fondo il suo lavoro scientifico. Tuttavia non c’è da ridere, bensì da essere preoccupati dei venti gelidi che soffiano di questi tempi, vale a dire del mediocrissimo livello, peraltro inflitto agli studenti, degli studi in questo settore, pur concedendo le consuete ampie attenuanti alla critica borghese, incapace, per il motivo essenziale riassunto più sopra, di una valutazione onesta, non pregiudiziale e legata ai soliti truismi, dell’opera di Marx.

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