martedì 19 ottobre 2021

It’s a mess

 

Stellantis, il gigante automobilistico e società madre anche di Fiat Chrysler Automobiles Canada, ha annunciato che licenzierà 1.800 lavoratori dei 4.000 presso il Windsor Assembly Plant a Windsor, in Ontario, situata sulle rive del fiume Detroit, immediatamente a sud dell’omonima città statunitense (nel Michigan) a cui è collegata tramite l’Ambassador Bridge. Windsor Assembly costruisce il minivan Chrysler Pacifica, Pacifica Hybrid, Grand Caravan e Chrysler Voyager. I licenziamenti saranno accompagnati dall’eliminazione del secondo turno dell’impianto a partire dal 17 aprile 2022 (circa 1.500 posti di lavoro erano stati cancellati l’anno scorso con l’eliminazione del terzo turno).

Motivazione: “la persistente carenza di semiconduttori e gli effetti estesi della pandemia di covid-19”.

Le difficoltà di approvvigionamento di semiconduttori ha temporaneamente colpito anche la produzione automobilistica canadese, i cui volumi sono diminuiti di quasi il 7% nell’ultimo anno e molti degli impianti di assemblaggio nel paese ne hanno risentito. Windsor Assembly, a esempio, ha operato per soli 3 mesi nel 2021. Anche lo stabilimento di Brampton Assembly, sempre di Stellantis, ha registrato lunghe pause d’inattività, e le produzioni di Ford, General Motors, Toyota e Honda hanno subìto un impatto simile. Lo stabilimento GM-CAMI Assembly vicino a London, Ontario, è uno dei più colpiti, e ha lavorato solo per tre settimane negli ultimi 9 mesi, anche se nel gennaio scorso GM s’è impegnata a investire un miliardo per produrre veicoli elettrici alla CAMI di Ingersoll, ma anche lì, come sostiene schiettamente il presidente del sindacato Unifor, “It’s a mess”.

Detto questo, il tentativo di Stellantis di vendere i licenziamenti a Windsor come semplice risposta a problemi imprevisti con i fornitori è una scusa. La realtà è che ben prima della fusione dello scorso gennaio di FCA con il gruppo PSA, che comprende Peugeot, Opel e Vauxhall, e che ha portato alla formazione di Stellantis (410.000 dipendenti alla costituzione), la direzione aziendale ha in progetto una ristrutturazione radicale.

Non per nulla a capo del gruppo Stellantis è stato messo lo spregiudicato Carlos Tavares, già direttore operativo di Renault, esperto ottimizzatore dei costi”. Quando si è fusa con FCA, PSA ha annunciato che avrebbe risparmiato 5 miliardi all’anno in costi. Tavares voleva “concentrarsi sull’utilizzo delle sinergie e sull’aumento della competitività sin dal primo giorno”.

È lo stesso Tavares che ha deciso di smantellare la rete Opel e trasformare gli stabilimenti di Eisenach e Rüsselsheim in società indipendenti con lo scopo di tagliare posti di lavoro e avviare la graduale chiusura degli impianti (si parla di fare dei “campus”). Non c’è nulla da meravigliarsi, questi funzionari del capitale sono strapagati per fare questo lavoro e s’impegnano al meglio. Finché si lascia fare, ovviamente.

Stellantis deve far fronte alla feroce lotta nel mercato dei veicoli elettrici e autonomi in rapida espansione. Come già scrivevo ieri a proposito del settore auto made in Germany, è in atto una vera rivoluzione, una guerra tra giganti. A subirne il danno e pagarne le conseguenze saranno i soliti, nonostante i governi locali e federali sborsino, come nel caso del Canada, centinaia di milioni di dollari in sussidi a FCA, Ford, e GM per garantire la “competitività”, gareggiando in una corsa al ribasso con gli stabilimenti, per esempio, del Messico. La solita canzone, basti vedere cosa sta succedendo alla Deere di East Moline e in 14 sue filiali negli Usa, con il primo sciopero in 35 anni del grande produttore di macchine agricole.

È il capitalismo. Fin dalle sue origini e per le sue inevitabili leggi funziona così, con nessuna pianificazione e programmazione della produzione e dell’economia, bensì una lotta continua e sempre più gigantesca tra capitali e Stati concorrenti. C’è però chi pensa, anche se sono sempre di meno, che votando si possano cambiare le cose, che il sistema si possa riformare, che grandi progressi sociali si sono pur fatti nel secondo dopoguerra. Tutta roba regalata dalla bontà del sistema, ovvio.

Non ci resta che aver fiducia negli eloquenti profeti del “mercato”, quelli che sotto una veste “scientifica” hanno una cura per tutto, anche per il cancro, direbbe il dottor Jannacci. Così per i leader d’impresa: per uscire dalla crisi devi lavorare di più, molto di più, davvero di più. Per le aziende sgravi fiscali, credito d’imposta per la competitività e l’occupazione (per risultati quasi nulli in termini di posti di lavoro). A seguire i loro “ragionamenti” la tentazione di ognuno di trasformarsi in un paradiso fiscale diventa irresistibile. E così sia anche per i professoroni che amano lo Stato solo quando gli paga lo stipendio o la congrua pensione (la previdenza sociale avvantaggia tutti, ma non tutti allo stesso modo).

Tutto un mondo che si tiene, le stesse persone piangenti per il debito pubblico che ci incatena, che è pur vero. Sennonché senza debiti pubblici mostruosi e in progressione la società sarebbe scossa da cima a fondo e farebbero la loro ricomparsa ghigliottine e tricoteuses.

Finché dura il debito “a gratis” tutto procede tranquillamente, ossia nell’ambito della cosiddetta “dialettica democratica”, inconsapevoli che non potremmo continuare così a vitam æternam. Perciò il sistema al momento non ha bisogno di mostrarsi “diversamente democratico”. La democrazia è l’involucro migliore in cui avvolgere contraddizioni e conflitto sociale. E, del resto, non c’è più da chiedersi se lo sviluppo delle forze produttive è maturo per un salto di binario nei rapporti sociali. Questi, da forme di schiavitù moderna, infettati dal virus ultraliberale sono approdati al postmoderno e perfino alle forme del neorealismo “concettuale”. E a noi che frega?


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