giovedì 28 ottobre 2021

Guerra e pace

 

Da molti anni ho perso il bisogno di leggere romanzi. Non è un bene, certo. Leggere certi romanzetti odierni ti fa venire voglia di uccidere i gattini e mangiare i bambini. Per questo motivo di solito preferisco leggere saggi di storia, economia, perfino di filosofia (ci capirò poi qualcosa?) e però anche i diari e le cronache d’intrepidi viaggiatori, quando ci volevano almeno tre giorni per andare da una città all’altra e mesi per raggiungere un nuovo continente tra pericoli continui e di ogni sorta. Viaggiare da fermi e respirare le molteplici vite immaginate.

Ogni tanto, però, poso gli occhi sui tesori sepolti negli scaffali. Non credo sia il caso di mettere in fila un certo numero di nomi altisonanti, dico solo che nella cambusa c’è anche parecchia letteratura russo-sovietica, di case editrici inghiottite dall’oblio e che avevano una propria unità produttiva (*).

Ciò che caratterizza la maggior parte di questi classici della letteratura è l’aver avuto per ciascuno di noi il loro momento di celebrità, di passione, giuramenti d’amore eterno in seguito traditi e quasi dimenticati. Appartengono alla categoria delle opere che hanno segnato un anno, e poi sono sopravvissute negli angoli più riposti delle nostre librerie domestiche, libri tra loro uniti dalla memoria, silenziosi e discreti. Com’era già successo ai nostri genitori e forse ai nostri nonni.

Da qualche sera mi diletto nel leggere alcune pagine di Guerra e pace. È un’opera meravigliosa, lo sappiamo, non ho bisogno di convincere nessuno a leggere Tolstoj. Poco più di mezzo secolo fa, chiesi in biblioteca i tre volumetti del romanzo tolstoiano. Quando una dozzina di giorni dopo li riconsegnai, la bibliotecaria mi disse che non mi avrebbe più prestato nulla. Perché mai? Rispose seccata che i libri dovevo leggerli, non solo prenderli a prestito.

Oggi rileggo Guerra e pace con più calma, non devo rincorrere freneticamente i personaggi che danno vita a uno dei capolavori della letteratura moderna: il bonario Pierre Bezukhov e il suo eccesso di timidezza; sua moglie, l’affascinate e spregiudicata Hélène Kuragin; il principe Bolkonskij e Natascia Rostov, che al ballo di capodanno raggiunge il “grado supremo di felicità”; un gala con storioni, caviale e vini francesi, quindi la residenza di campagna di Otradnoe, i paesaggi incantati.

Può essere letto come un manuale completo di psicologia, di vite fatte di nulla, ma un nulla scintillante che affeziona il lettore allontanandolo per un po’ dal suo mondo banale di costrizioni. Il tutto velato di malinconia, che è spesso il prezzo dell’ozio. E naturalmente l’Armée napoleonica che avanza, l’incendio di Mosca, la disastrosa ritirata, cipria e lustrini mischiarti con polvere da sparo. E così via fin verso la fine, quando si legge:

«Per la storia affermare la libertà degli uomini come una forza capace di influenzare gli avvenimenti storici, e quindi non soggetta a leggi, sarebbe come per l’astronomia affermare la libertà di movimento dei corpi celesti».

Come potevo allora spiegare all’antica bibliotecaria, zitellona, incarognita e con una gran voglia di brontolare, che due degli epicentri del grande romanzo tolstoiano, vale a dire il racconto avvincente delle battaglie di Austerlitz e di Borodino, descritte mirabilmente e minuziosamente, non poteva essere interrotto per poi riprendere nei giorni successivi, ma andava consumato in un unico lungo sorso, dunque che una dozzina di giorni erano bastati per bermi tutta la damigiana tolstoiana?

Con gli occhi di oggi, mi sembra che Tolstoj offra al lettore un ritratto di Napoleone troppo somigliante e aderente allo stereotipo dei suoi più accesi detrattori. A ogni modo ha ragione quando scrive: «È solo a posteriori che gli storici hanno applicato ai fatti compiuti i loro cervellotici argomenti per dimostrare la preveggenza e genialità dei condottieri, i quali invece fra tutti gli strumenti involontari degli eventi mondiali furono gli attori più servili e involontari».

Luigi Mascilli Migliorini, nella sua nota biografia napoleonica, cita en passant questa considerazione di Tolstoj, ma a mio avviso avrebbe fatto bene nel riportarla testualmente per rendere meglio la valenza della concezione tolstojana relativamente alle vicende storiche in generale e non solo a riferimento di quelle due epiche battaglie.

Tolstoj è stato uno scrittore critico del socialismo e del marxismo, legato all’ideale della società contadina russa, soggiogata e schiava della nobiltà, ma aveva anche denunciato la divisione sociale del lavoro che soffoca la creatività e umilia la dignità umana, definendo però il lavoro agricolo come “espressione della legge dell’amore”. Ai grandi artisti si può e si deve perdonare molto, tanto più se si tiene conto del contesto storico e della condizione personale nella quale l’artista viene ad esporre le sue idee.

Marx lesse Tolstoj? Quando Marx decise di conoscere meglio la situazione economica e sociale della Russia, decise di accedere a questa lingua attraverso l’Eugenio Onegin di Puskin e un libro di Memorie di Herzen (autore che però gli riusciva antipatico). La sua conoscenza del russo non fu mai approfondita, tuttavia sufficiente per leggere studi di economia e di statistica in russo, e per formarsi una biblioteca di testi russi che arrivò a 120-200 titoli.

Tra queste opere erano compresi Saltykov-edrin (se non l’avete ancora letto, affrettatevi), Gogol’, Turgenev, Lermontov, ernyevskij, eccetera. Nelle sue opere e nella sua corrispondenza non vi è traccia di Tolstoj. Un vero peccato.

Rosa Luxemburg adorava Tolstoj, anche Lenin aveva un’alta considerazione dello scrittore (gli piacevano di più echov e Dostoevskij), tuttavia, pur valutandone positivamente il lato artistico-letterario, in un articolo del 1911, scriveva:

«Un quarto di secolo fa, gli elementi critici della dottrina tolstojana potevano a volte essere utili, nella pratica, a certi strati della popolazione, nonostante i tratti reazionari e utopici del tolstojsmo. Nel corso degli ultimi anni, mettiamo, dell’ultimo decennio, non poteva essere così, perché lo sviluppo storico ha fatto un passo in avanti considerevole dagli anni Ottanta alla fine del XIX secolo. [...] Ai giorni nostri, ogni tentativo di idealizzare la dottrina di Tolstoj, di giustificare o di raddolcire la sua “non-resistenza”, i suoi appelli allo “Spirito”, il suo sermone d’”autoperfezionamento morale”, la sua dottrina della “coscienza” e dell’”amore” universale, la sua omelia dell’ascetismo e del quietismo ecc., è assai direttamente e assai profondamente nociva».

Penso che leggerò La verità su mio padre, scritto dal figlio, Lev L'voviTolstoj.

(*) Erano le pecore a vestire le edizioni più pregiate (gli amanti degli animali apprezzeranno); gli artigiani di un’arte ormai quasi scomparsa provvedevano alla rilegatura, alle carte posteriori e il decalco dorato a 195° C, ossia l’incisione in oro di titoli e nomi, i segnalibri in seta intrecciata, eccetera. Alcune delle fasi non complementari della produzione d’un libro, dove eccelle la chiarezza di gesti ben qualificati.

4 commenti:

  1. No.
    Verso i 16 anni, feci una delle rare operazioni di lettura sistematica. Comprai una storia della letteratura russa, e cominciai a leggere in ordine cronologico. Puskin, Turgenev, Gogol, Dostoevskij (degli ultimi due, tutto, proprio tutto). Arrivai così, animato di un certo entusiasmo, a Tolstoj. Mollai Guerra e Pace al primo volume. Io non reggo il moralismo, specie russo e specie ottocentesco. Diciamo che quel giudizio di Lenin, che riporti e non conoscevo, lo condivido.
    La bibliotecaria zitella con me avrebbe avuto ragione.

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    1. La verità è che non ti piacciono le zitellone algide, ma ci sono anche quelle calienti... varia da biblioteca a biblioteca

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  2. A Scienze Politiche a Padova, tanti anni fa, c'era una bibliotecaria comme il faut. Non vorrei rivederla oggi.

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    1. non frequentavo via san francesco, ma ero presente in via san biagio

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