domenica 28 febbraio 2021

La moglie dell'ambasciatore e altre storielle

 

Nicolò Tron (1685-1772) fu il più famoso personaggio della sua casata, che nei secoli aveva dato una lunga serie di procuratori di san Marco e un doge, eletto nel 1471.

Dal 1702 al 1704 aveva frequentato il collegio dei nobili di Parma, retto dai gesuiti; uscito dal collegio, aveva deciso di farla finita per sempre con i gesuiti, interessandosi di cultura scientifica divenendo un convinto estimatore del sistema economico inglese e olandese.

Conobbe Newton e strinse amicizia con industriali e agronomi inglesi e fu ben presto inviato ambasciatore a Londra, dove rimase in legazione dal 1714 al 1717.

Nel 1711 aveva sposato Chiara Grimani, del ramo dei calergi a san Marcuola. Nel 1712 era nato Andrea, di cui dirò.

La sua ambasceria fu “inconsueta” e sicuramente atipica dati i suoi interessi scientifici per le innovazioni tecniche. Sapeva perfettamente l’inglese, corseggiò tra libri di meccanica e fabbriche, tra pompe idrauliche e testi di agronomia.

L'ambasceria di Nicolò fu così anomala che gli inquisitori (non bisogna equivocare il termine, si trattava di alti funzionari della Repubblica veneta) gli spedirono, poco dopo il suo arrivo a Londra, un rabbuffo per non aver approfittato dell’inclinazione di re Giorgio I per la deliziosa ambasciatrice Chiara Grimani Tron, “la più bella dama dei suoi tempi”.

Scrive a tale riguardo Paolo Gaspari nel suo “Serenissimo principe ...”: “Avevano voglia quei vecchi barbogi Inquisitori spioni a chiedere al Tron di fare vita di corte e di ottenere favori alla Repubblica con le buone grazie della Trona!”.

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Il figlio di Nicolò, Andrea Tron, “rappresentò il meglio dell’aristocrazia veneziana e ne incarnò, più di ogni altro, la religione civile e il senso di autentica civiltà, dettati dalla coscienza di una comune e suprema responsabilità verso lo Stato” (Gaspari, p. 20).

Andrea fu uomo coltissimo, ricco di esperienze, legato, come detto, ad una tradizione familiare che aveva sempre unito all’intraprendenza economica un serio impegno di governo. Dapprima fu destinato dalla Repubblica come ambasciatore all’Aia (dove aveva conosciuto Voltaire), poi a Parigi e Vienna. Ritornato a Venezia nel 1753 ricoprì nei decenni successivi numerosissime cariche pubbliche e accumulò una conoscenza profondissima della macchina statale veneziana. Il suo parere ed il suo appoggio erano spesso fondamentali per risolvere questioni ed ottenere incarichi, tanto da essere denominato ‘el paròn’.

Tra i provvedimenti più notevoli di cui fu strenuo promotore e difensore, si ricorda il decreto del 7 settembre 1754, che riduceva l’ingerenza romana nel territorio della Repubblica, e provvedeva a una riforma religiosa mirante a ricondurre il clero ad una maggiore disciplina pastorale, a por fine alla licenziosità ecclesiastica, ai traffici di indulgenze e “benefizi”, cause di un “notabilissimo danno dello Stato per le somme grandiose di denaro che escono per procurarsi simili concessioni” (proibiva l’invio di denaro da parte dei sudditi verso la corte di Roma). Il decreto portò alla soppressione di centoventisette monasteri, i cui beni furono venduti all’asta.

L’opposizione di Roma fu ovviamente feroce, con fortissime pressioni sulle corti di Parigi e Vienna. Il decreto sarebbe stato ritirato solo quattro anni dopo, allorché salì al trono pontificio il veneziano Carlo Rezzonico, con il nome di Clemente XIII.

Nel 1755 Andrea conobbe e iniziò una relazione con Caterina Dolfin, donna non convenzionale che diventerà molto nota anche ai posteri per i suoi interessi culturali e relazioni intellettuali. Già sposata, attese l’annullamento del matrimonio che le sarebbe stato concesso solo il 10 aprile 1772, quando sposò Andrea. Basandosi su un coevo libello diffamatorio, vengono ancor oggi imbastite fatue supposizioni su Caterina che consentono agli editori delle plusvalenze.

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Tron propugnava non lo sviluppo economico fine a se stesso, non l’affidamento alle sole forze del mercato, ma una crescita qualitativa dell’economia, in cui gli interessi della produzione s’intrecciassero con i bisogni pratici della società. Ciò si poteva ottenere solo liberando l’economia dell’individualismo capitalistico aprendo la strada alla nobiltà come classe imprenditoriale produttiva nei rami dell’industria e delle arti, e di conseguenza aumentandone il peso politico.

Non si avvedeva però che i suoi buoni e onesti propositi contrastavano con lo spirito capitalistico stesso. Un capitalismo “civile”, che non si risolva solo nel profitto, oltre a scontrarsi con le leggi del mercato, doveva fare i conti con un patriziato tremendamente restìo ad assumersi in toto lo sviluppo civile dell’economia veneta al di fuori dell’ambito agricolo.

Fu sulla base di queste idee di riforma che il 29 settembre 1773, come procuratore di san Marco, Tron presentò un disegno di legge per la “ricondotta” degli ebrei, ossia un provvedimento che ingiungeva agli ebrei di abbandonare qualsiasi attività di mercanti- fabbricatori, vietando inoltre di appaltare produzioni in fabbriche e manifatture che “sussistono in Venezia e nello Stato”.

Nessuna persecuzione antisemita stava in capo al provvedimento, bensì prosaici motivi economici. Accadeva che questi non-sudditi (gli ebrei non erano considerati veri e propri sudditi, ma commercianti della piazza di Venezia, sotto pubblica protezione), fabbricanti di merci, le vendessero a prezzi fortemente concorrenziali, in quanto contemporaneamente produttori, esportatori e commercianti al minuto, portando così grave danno agli artigiani appartenenti alle corporazioni cittadine.

Inoltre, come sottolineava Giovanni Tabacco, “quando un ebreo, o chiunque sia dedito essenzialmente al commercio, fa lavorare per conto suo proprio, ingerendosi nell’esecuzione delle manifatture, egli è mosso non già da un interesse immediato per questa forma d’industria, ma dalla mira di un lucro maggiore in commercio: costringe i lavoratori a un’esecuzione imperfetta, che scredita la manifattura, pur di avere i prodotti a prezzo inferiore” (Andrea Tron e la crisi dell’aristocrazia senatoria a Venezia, Trieste 1957, p. 177).

Con la “ricondotta”, gli ebrei che risiedevano in località prive di ghetto dovevano trasferirsi in città ove esistesse un ghetto, in modo che le loro attività potessero essere controllate. Ciò fu fatto soprattutto per migliorare la disciplina dei banchi di pegno, al fine di “promuovere il possibile sollievo del popolo nelle misure d’aggravio sulle pignorazioni”, per regolare la vita interna del ghetto, il pagamento delle imposte e altre prescrizioni che in pratica limitavano l’attività degli ebrei al solo commercio marittimo e terrestre.

È noto, sotto il titolo “Serenissimo Principe”, il discorso pronunciato da Andrea Tron nel 1784, che fu il suo testamento politico, nel quale riassume la sua preoccupazione di rafforzare all’interno la Repubblica, di subordinare le strutture ecclesiali all’interesse dello Stato, di formare la nobiltà e le élites secondo moderne scienze e discipline, di indirizzarla verso uno sviluppo economico “civile” che non rompesse quel mirabile equilibrio di lealtà e reciprocità tra governanti e sudditi che fu la vera forza della della Repubblica.

Il 2 settembre 1784 un decreto senatorio tradusse in atto formale il discorso con cui Tron spronava il patriziato a investire capitali nella mercatura, dichiarando che la partecipazione al settore produttivo non macchiava l’onorabilità nobiliare.

La battaglia di Andrea Tron per ricondurre lo sviluppo economico in una dimensione aristocratico-borghese era persa in partenza, poiché il crollo del sistema veneziano era solo questione di tempo, l’epilogo di un lento processo d’isterilimento economico oltre che di dissolvimento politico. La crisi settecentesca rovesciava le ultime barriere di un sistema dominato dal privilegio aristocratico, creando lo spazio per l’affermarsi, non certo in modo pacifico e lineare, di un diverso equilibrio sociale e internazionale.

In politica estera Tron non ignorava il pericolo che la Repubblica potesse divenire oggetto di eventuali compensazioni tra i belligeranti, tuttavia rimase sempre di convinzioni neutraliste, minimizzando i timori di possibili spartizioni e di trattati segreti volti a minare l’integrità territoriale della Serenissima. Gli eventi, in un certo modo, gli avrebbero dato ragione a riguardo della linea neutralista, anche dopo la sua morte (*).

Quando infine sarebbe tornerà a trionfare di nuovo la prepotenza della reazione, soffocando gli ideali libertari che avevano innescato e prodotto giganteschi cambiamenti nel quadro europeo, della secolare potenza e gloria della “Dominante” restava ormai solo un nostalgico ricordo.

(*) Penso sia fondamentale per comprendere i motivi e le situazioni che portarono alla caduta della Repubblica, l’insuperato lavoro di Roberto Cessi: Campoformido, Antenore, Padova, 1973 (2^ ediz.). Curioso il fatto che dapprima il Direttorio, “Deplorando le molestie che le necessità di guerra avevano procurato al territorio veneziano e declinandone la responsabilità, era propenso a osservare un benevolo rispetto delle prerogative della Repubblica, sollecito a garantire congrui risarcimenti, quando fossero legittimamente richisti.” (p.17). Inoltre, “Ignorando della reale situazione italiana, si era pronunciato in senso opposto all’atteggiamento politico adottato da Bonaparte, e nell’abbozzo della sistemazione territoriale italica aveva spontaneamente riservato a Venezia, E senza alcuna pregiudiziale condizione, generoso compenso nel Trentino nel bressanonese” (pp. 32-33).

Fu in occasione dell’occupazione francese che nella villa di Mira Vecchia dei Tron furono stanziati 2.000 soldati. In seguito la villa fu oggetto di un incendio, venne infine demolita nel primo Ottocento. La casata dei Tron si estinse nel 1800.

5 commenti:

  1. Cose di cui mi parlava Gaetano Cozzi.

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    1. Sagra del pevaron anca ti? Io ci andavo in bici a sentire un complessino nel 1968

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    2. Premesso che io mangio di tutto eccetto i peperoni, credo che parliamo di una parrocchia diversa dalla tua. Lui (e la moglie) sono stati tanto sfortunati, e guarda, io sono duro di cuore, ma quando penso a quest'uomo mi commuovo, perché ha sofferto. Poi c'erano i suoi, Ventura a cui spararono, evabbe'. Ma il più tenero era quel Selmi, di casa all'Archivio di Stato, addirittura lefebvriano. Si può essere lefebvriani? Ripeto, che tenerezza. Era come un putto cresciuto, ma non tanto. Lui e Cozzi parlavano di Venezia e veneziani (soprattutto del '600) come se si fosse trattato di persone vive e conosciute: che so, el bechér, el caeghér, el me barba vecio.

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  2. Bello scorcio di storia! Mi ha tenuto compagnia durante la pausa del mio giro ciclistico. Ho solo trovato ostica la nota finale ... Grazie. G S

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