domenica 9 novembre 2025

La patrimoniale silhouette

 

La Francia di Luigi XVI, quella del 1789, era tecnicamente fallita dal punto di vista finanziario: il 50% della spesa pubblica era destinato a pagare gli interessi sul debito. Il deficit annuale, la differenza tra entrate e uscite, era stimato del 20% circa. L’unico modo, si riteneva, per tentare di salvare il regime era quello di far pagare le imposte a clero e nobiltà. Che ovviamente non ne volevano sentir parlare. Il Parlamento di Parigi, composto da privilegiati, non faceva passare nessuna legge di riforma fiscale.

Si invocarono e furono convocati, nell’agosto 1788, gli Stati generali, vale a dire un’assemblea dei tre ordini che costituivano la struttura di classe della Francia: clero, nobiltà e borghesia (terzo stato). L’ultima volta che si erano riuniti gli Stati generali era il 1613. Si votava per “stato”, per ordine, non per “testa”. Sulle questioni decisive la partita era destinata a finire 2 a 1 (clero e nobiltà contro terzo stato).

Il ministro delle Finanze, Jacques Necker, ebbe l’idea di raddoppiare il numero degli eletti del terzo stato e di far votare gli Stati generali per testa anziché per ordine. Il voto per “testa” sarebbe valso, nelle intenzioni, solo sulle leggi fiscali, non sulle altre. La nobiltà di oppose, ma il provvedimento di raddoppio dei rappresentanti del terzo stato passò, ma in esso non era indicata la modalità di voto.

Nel maggio del 1789, vi fu l’inaugurazione degli Stati generali. Rimaneva da chiarire la questione del voto: per stato o per testa? Il terzo stato voleva ovviamente votare per testa, e non solo in materia fiscale, mentre clero e nobiltà volevano il voto per stato. Inoltre, il terzo stato chiedeva che le decisioni fossero prese in seduta comune. Luigi XVI minacciò di scioglimento il terzo stato, riunito in assemblea permanente nella Sala della Pallacorda. Lo scioglimento del terzo stato riunito in assemblea avrebbe creato una situazione esplosiva.

Alla fine Luigi Capeto cedette e ordinò che i tre stati si riunissero in seduta comune. I delegati dei tre stati si proclamarono assemblea nazionale. Era il 27 giugno. Questa data segna una rivoluzione politica. Nella prima decade di luglio, l’assemblea nazionale si proclamò assemblea nazionale costituente. Era la fine della monarchia assoluta. Nella notte del 3/4 agosto 1789, l’Assemblea nazionale vota l’abolizione dei privilegi e il riscatto dai diritti feudali. Dopo la rivoluzione politica del 27 giugno, quella del 4 agosto è una rivoluzione sociale.

Nel marzo 1790, si fa strada il nuovo diritto successorio: abolizione dei diritti di anzianità e di mascolinità sui beni nobiliari; seguirono altre leggi, come quello dell’8 aprile 1791, sull’uguaglianza tra gli eredi (successione legittima) e la libertà di testare. La fine del “maggiorasco” segna anche la fine di uno dei pilastri del feudalesimo.

Veniamo all’oggi. In Francia, la “patrimoniale” è stata abolita nel 2018, dopo il suo sostanziale conclamato fallimento. Ora si vuole reintrodurla con un altro nome. In tal senso va un emendamento (approvato) al disegno di legge di bilancio 2026, che rilancia il vecchio concetto di imposta sul patrimonio, pur sostenendo di limitarla alla cosiddetta ricchezza “improduttiva”. Va a sostituire l’IFI, che tassava il valore netto del patrimonio immobiliare superiore a 1,3 milioni di euro, esclusi gli investimenti finanziari. Ora, questa legge amplia la base imponibile oltre i beni immobili, includendo anche i beni personali tangibili (oggetti preziosi, automobili, yacht, opere d’arte), le attività digitali (criptovalute) e la maggior parte dei prodotti assicurativi sulla vita. La scala progressiva dell’imposta è sostituita da un’aliquota fissa dell’1% sulla quota eccedente la soglia di 1,3 milioni di euro.

È solo un’altra trovata, una réclame per gli allocchi. Già il governo precedente propose un provvedimento che mirava a creare un’imposta minima sul patrimonio (IPF) per lo 0,01% dei contribuenti più ricchi, ovvero coloro che possiedono più di 100 milioni di euro (!!!), per garantire che pagassero almeno il 2% del loro patrimonio in tasse.

Ciò mi ricorda, nel dettaglio delle curiosità, che nell’ancien régime si era provato di tutto per fare pagare le tasse, come testimonia il termine, divenuto poi di uso comune, di “silhouette”. Esso si riferisce ad Étienne de Silhouette (1709-1767), che quanto a fantasia impositiva non fu secondo a nessuno. Arrivò a tassare gli edifici sulla base del numero delle finestre e delle porte, quindi “invitò i privati a portare la loro argenteria all’erario per farne moneta” (risate).

Nell’Italia di oggi, il 43 per cento dei contribuenti non versa un solo euro di imposte. Il debito pubblico è, sia in termini assoluti che in rapporto al Pil, ai limiti della sostenibilità tecnica. Gli interessi sul debito, nel 2024, sono stati di 100 miliardi tondi, su una spesa pubblica di 886,4 miliardi, vale a dire l’11,28 per cento. La situazione è destinata a peggiorare nei prossimi anni, e chi dovesse sostenere il contrario, mente sapendo di mentire.

Chi pensa di risolvere la questione della crisi finanziaria e di bilancio dello Stato, magari invocando una “patrimoniale” (che nessuno realmente vuole), non può essere in buona fede. Non è questione di destra o di sinistra. In un sistema capitalista, in un regime a forte impronta classista dove non si riesce a strappare neppure un salario un po’ più alto e in linea con l’inflazione, ogni tentativo di riforma è inutile. È sempre più evidente, nella crisi del sistema, che senza scardinare l’intero ordine sul quale si basa ogni privilegio di classe, le cose non possono davvero cambiare.

3 commenti:

  1. Pure quel parvenu di Landini ha proposto una patrimoniale per i più ricchi.
    Ce lo ritroveremo tra qualche anno in parlamento magari nelle fila del PD.
    Gli allocchi abbondano!

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    1. Landini è un ex operaio, non un parvenu. Nel vuoto pneumatico della sinistra c'è di peggio. Molto peggio.

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    2. Ce lo ritroveremo tra qualche anno nei banchi parlamentari sotto l'egida del PD eletto a Parvenu!

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