In un piccolo bar affollato, poco illuminato e invaso dal fumo. In fondo alla sala, su uno schermo scorrevano silenziose delle immagini, quelle della cronaca di un omicidio avvenuto la notte precedente. Questo il mio ricordo di quel giorno di novembre 1975, mentre bevevo il mio terzo o quarto succo di frutta alla pesca. Da allora e per decenni non ho più sopportato quel gusto. Autunno, inverno, primavera, estate, sera e mattina, mezzanotte, mezzogiorno, stavo per entrare in un lockdown di anni, infinito. Storia inesorabile e inaudita del quasi nulla, la mia.
È passato il cinquantenario della morte di Pasolini, occasione per molti di retorica di consacrazione e, per altri, di perdurante disprezzo. Pasolini fu personaggio assai controverso tra i più noti di allora, di rottura e di scandalo, inviso non solo ai fascisti, che non lo assassinarono di propria mano (la malavita romana, su mandato specifico di chi, non lo sapremo mai), ma anche a quell’Italia perbenista, bigotta e tanto pruriginosa, nell’inconfessabile privato, ossia quella palude che frequentava le sacrestie e le sezioni di partito, dunque trasversale alle classi sociali e ai colori politici.
Come poeta non lo so giudicare, come scrittore lessi un suo ottimo romanzo, come regista mi parve mediocre, come sociologo e polemista penso diede il suo meglio. Seppe per esempio individuare già allora le ragioni profonde ed essenziali della contestazione studentesca, o meglio, di una parte di essa, quella piccolo borghese, che rivendicava una società e una scuola più aperte, con maggiori diritti individuali e sociali e qualche altra mancia.
In un celebre articolo seppe dire ciò che tutti sapevano e che molti non avevano il coraggio di dire pubblicamente, e cioè che le bombe e le stragi erano sì fasciste, ma i mandanti diretti e quelli per così dire morali erano altri. Disse di non avere le prove dei suoi sospetti e delle sue accuse, ma del resto penso non vi sia interesse, specie in un Paese come il nostro, scrivere una storia di quegli anni da una prospettiva di diritto penale.
Quanto al suo atteggiamento, non gli piaceva il gioco di gruppo, non sopportava la monotonia delle élite, e questo è sicuramente positivo, ma la sua critica del sistema in generale penso fosse d’ordine sociologico e morale, un contrappunto incisivo sulle trasformazioni sociali del Paese, ma tutto sommato si trattò di critica laterale. Del resto, anche lui era nato e vissuto sul suolo di questa penisola di grovigli bizantini e cattolici.
Mi chiedo che cosa avrebbe potuto dirci e raccontarci di questi nostri anni che vedono di nuovo la macchina per macinare i popoli impazzita. Siamo solo in modalità sopravvivenza, le persone non si rendono conto che la fine dei mondi, la distruzione di culture uniche, le annienterà e non si riprenderanno mai più.
Ha detto anche qualcosa sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, ma si percepisce che non aveva approfondito sistematicamente la lettura di Marx.
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