Riprendo un tema che mi pare non goda più dell’empatia e dell’enfasi polemica di qualche tempo addietro, e del resto, come sappiamo almeno dall’epoca del buon dottor Guillotin, tutto ciò che accade è destinato a essere solo un complemento dello spettacolo. Dunque non c’è da stupirsi se i recenti e ancora inconsunti massacri in Palestina (ma anche altrove) stanno assumendo la forma utilitaristica di una delle tante banalità di fondo che governano i nostri delicati sentimenti di odio e amore. Un esempio di questa banalizzazione ce lo offre il titolo e la foto qui sotto.
Perché delle lezioni scolastiche sull’ebraismo? Per via dell’antisemitismo, si dice. Quello di mettere tutta la saliera nella minestra è un vecchio vizio. Si può accusare l’Italia di essere razzista, ma non antisemita (salvo qualche frangia di basso spessore politico che plasma un immaginario putrido di “purificazione”). Al contrario, in Italia esiste un generale e distinto sentimento filosemita e, salendo i gradini della buona società, anche filosionista.
Detto in numeri: gli ebrei nostrani sono meno di 30.000, gli islamici sono circa 1,6-1,7 milioni, pari a oltre il 30% della popolazione straniera totale, e il sentimento antislamico è sicuramente molto più diffuso rispetto all’antisemitismo, e non perché si è letto il Corano scoprendolo letterariamente poco attrattivo. Poi, presi singolarmente, siamo quasi tutti propensi a considerare che ogni individuo, qualunque sia la sua origine, meriti di essere difeso, ascoltato e, se necessario, sostenuto. In fondo siamo un Paese di cattolici apostolici.
Ad ogni modo, chiedo: accusare qualsiasi azione politica che perseguiti e uccida le minoranze, nel caso specifico i palestinesi da parte lo Stato d’Israele e del suo esercito, è antisemitismo? Opporsi alla dottrina coloniale del sionismo e sostenere che gli ebrei che occupano le terre palestinesi e praticano l’apartheid sono dei razzisti suprematisti, è antisemitismo?
Lo strumento principale utilizzato oggi per delegittimare e mettere a tacere le critiche a Israele è la definizione di antisemitismo dell’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance), che afferma che l’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei. Questa definizione, di una organizzazione un tantino di parte, viene utilizzata ufficialmente, anche in ambito istituzionale UE, per censurare i difensori dei diritti dei palestinesi e ostacolare la libertà di espressione (non è qui il caso di tirarla per le lunghe, ma potrei dimostrarlo documentazione alla mano).
Hannah Arendt, filosofa ebrea, fu una delle prime persone ad affermare, in relazione a quanto accaduto durante il nazismo e oltre, che il male non nasceva dall’odio, ma dall’obbedienza cieca al sistema. Sono d’accordo e allungando di molto il discorso si potrebbe arrivare a chiedersi da dove e come nasca l’obbedienza cieca al sistema.
Esistono anche ebrei antisionisti che fanno proprie le stesse accuse di apartheid e ora di genocidio. Antisemiti anche loro? Non va dimenticato (e ne ho già scritto) che in origine il movimento sionista in Europa incontrò una forte opposizione all’interno delle comunità ebraiche stesse, dove molti lo percepivano principalmente come una minaccia per gli ebrei.
L’accusa di antisemitismo è diventata un’arma in mano a Israele e al sionismo, un loro simbolo di immunità morale e uno strumento politico di dominio. Con il pretesto di “proteggere” gli ebrei, le potenze occidentali hanno santificato dal secondo dopoguerra ad oggi i crimini di Israele mettendo a tacere ogni critica legittima.
Se si danno lezioni scolastiche sull’ebraismo, non vedo perché non impartirle anche sull’islamismo? Meglio ancora si potrebbe sostituire l’anacronistica ora di religione cattolica con la storia delle religioni. Ma non vorrei spingermi troppo oltre, del resto siamo solo nel XXI secolo, e comunque penso sia impossibile insegnare nelle scuole italiane, seriamente e senza sconti, storia delle religioni senza che si scatenino sparatorie furibonde tra gli alunni e specialmente tra i loro rispettivi genitori.

Neanche l'educazione sessuale, che è semplice profilassi.
RispondiEliminaPrimo Levi in Sommersi e salvati faceva osservazioni simili, che non è questione di odio verso qualcuno in particolare ma di come si arriva alla legittimazione di quell'odio e delle conseguenti pratiche discriminatorie e omicide. Ci vuole l'organizzazione di un sistema appunto.
Decenni di letture, film, discorsi e dibattiti e non abbiamo capito nulla.
Pietro
"Hannah Arendt, filosofa ebrea, fu una delle prime persone ad affermare, in relazione a quanto accaduto durante il nazismo e oltre, che il male non nasceva dall’odio, ma dall’obbedienza cieca al sistema. Sono d’accordo e allungando di molto il discorso si potrebbe arrivare a chiedersi da dove e come nasca l’obbedienza cieca al sistema."
RispondiEliminaL'obbedienza cieca dei Tedeschi veniva usata per annientare Ebrei, zingari, omosessuali ed altri. Secondo questa ipotesi l'annientamento veniva compiuto senza odio o non per odio. Almeno da parte della massa obbediente. Hitler e compagnia stretta non obbedivano, non a persone viventi presenti o se fosse stato non nel modo in cui la massa obbediva a loro - non ricordo se la Arendt ha espresso ipotesi sulla nascita del male al vertice della piramide, visto che non dovrebbe essere l'obbedienza cieca al sistema se con sistema s'intendono persone in carne ed ossa. Ma il successo contagioso che avevano i discorsi del capo impastati d'odio (facciamo finta di sapere cosa è, più o meno funziona) forse per lui e stretta compagnia si può ipotizzare che l'odio aveva un ruolo diverso da quello provato per contagio dalle masse obbedienti. Se poi pensiamo che nemmeno per chi comandava era l'odio l'origine del male ma anche per loro era l'obbedienza cieca su cui potevano contare, non credo esistano fatti che rendono improponibile tale pensiero. E da dove e come nasca l'obbedienza cieca al sistema diventerebbe la domanda centrale, il sapere da sapere. L'odio lo potremmo relegare con maggior successo - passando dalla sociologia alla psicologia sociale e la psicologia clinica - ai vissuti degli individui, dove però sempre vale il far finta di sapere cosa è mentre si è più sicuri che è.