venerdì 2 febbraio 2024

L’esercizio del libero mercato applicato da una massaia


Se ne parla poco, giusto quando i trattori scendono, si fa per dire, in piazza. Eppure il 33% del bilancio europeo è dedicato al settore dell’agricoltura.

La superficie complessiva utilizzata per la produzione agricola nell’UE non è cambiata tra il 2005 e il 2020 (un aumento dello 0,3%), ma sono scomparse il 37% delle aziende agricole, da 14,7 a 9,3 milioni in tutto. L’87% delle aziende agricole scomparse (4,6 su 5,3 milioni di aziende agricole) aveva dimensioni inferiori a 5 ettari di superficie agricola utilizzata, mentre l’unica categoria di aziende agricole di cui si è osservato un aumento del numero di aziende è quella delle imprese con almeno 100 ettari.

Forse in molti casi è bene così, aziende troppo piccole hanno costi insostenibili e non reggono sul mercato. E però le aziende di dimensioni maggiori, con almeno 100 ettari, rappresentavano, nel 2020, il 3,6% del numero totale delle aziende ma al contempo più della metà (52,5%) della superficie agricola totale utilizzata in UE.

Questo significa che l’agricoltura si va centralizzando in poche mani, fagocitata dai colossi agroindustriali che dominano oltre la metà della superficie agricola utilizzata in Unione Europea. E ciò non è senza conseguenze, anche e soprattutto sul piano dei prezzi e della concorrenza, quindi degli accordi tra grandi produttori e grande distribuzione, in particolare con le vendite sottocosto che distorcono il mercato e la concorrenza.

Le regole ci sono, ma non vengono rispettate e fatte rispettare. Le centrali d’acquisto, braccio forte della grande distribuzione, agiscono con discrezione e onnipotenza. Immagino che vi sia chi vede in ciò una buona causa, quella del potere d’acquisto dei consumatori. Solo che la realtà capitalistica di solito è brutale: in un mercato di consumo che si contrae a causa della precarietà galoppante delle classi medie, i distributori sono impegnati in una formidabile guerra per le quote di mercato che comporta, ovviamente, la riduzione dei prezzi d’acquisto. In questo gioco di anelli deboli c’è chi patisce più degli altri. E i primi a sopportare il calo dei prezzi sono proprio gli agricoltori medio/piccoli.

Un esempio concreto di che cosa succede: la grande distribuzione guadagna più margine su un chilo di mele prodotte da un agricoltore che su un barattolo di Nutella, vale a dire che gli ipermercati venderanno i prodotti del settore agricolo a un prezzo più alto per vendere i prodotti di marca a un prezzo più basso. Ecco perché frutta e verdura costano un occhio (ma ciò vale anche per il pesce) e la cioccolata o i biscotti te li tirano dietro!

E veniamo al latte. C’è la questione della sovrapproduzione, un caso tipico di un’economia anarchica in un’epoca in cui dal punto di vista scientifico e tecnologico dovrebbe essere molto più semplice ottimizzare una pianificazione rispetto al passato. Il caso della produzione di latte in eccesso è tipico: i consumatori non avranno due scodelle invece di una a colazione perché ne hai prodotto troppo. Né la produzione di formaggio può colmare l’eccesso di latte, con tanti saluti ai piani di filiera DOP. Così, il “libero mercato” e il gioioso produttivismo si combinano per produrre troppo, i prezzi diventano inferiori a quelli di produzione, e quindi gli allevatori urlano mentre i piccoli caseifici sono strangolati dal dumping (con pagamenti anche inferiori al prezzo minimo, per cui trovi il tipo Asiago a 8 euro il kg., neanche il prezzo del latte per produrlo).

Le famose quote avrebbero dovuto avere un effetto limitante e quindi impedire la caduta dei prezzi, ma l’instancabile ideologia del libero scambio voleva fare del latte un prodotto di esportazione, e in Europa si scatena la concorrenza fiscale e sociale, per non parlare della lotta per i sussidi, che merita un discorso a parte. Nell’allevamento del bestiame, gli investimenti vengono effettuati con un orizzonte di diversi anni, a differenza dei coltivatori di cereali, che possono spostarsi da una coltura all’altra ogni anno a seconda dei prezzi mondiali.

L’allevatore chiedeva prestiti per modernizzarsi, investire in robot di mungitura, poi chiedeva nuovi prestiti per mettere a norma le attrezzature di controllo sanitario, eccetera. Tutto questo per rendersi conto che questo sistema lo ha rovinato. Prima vendeva il latte e la carne a delle cooperative, che rivendevano ai centri d’acquisto della grande distribuzione, oggi è la grande distribuzione che impone il suo prezzo. L’allevatore si è reso conto che modelli corti, biologico, attenzione all’energia, al clima ... erano chiacchiere per fregarlo.

Quando sentite quelli che parlano di “catena del valore”, state alla larga. Tra la partenza del prodotto dalla fattoria e la sua collocazione sullo scaffale del supermercato, ci sono un sacco di pantegane “agroalimentari”, il che significa che mediamente, su un carrello da 100 euro, oltre l’80 per cento se lo mangiano le pantegane. Oppure ci sono “accordi” a monte, che però non rappresentando né il valore del prodotto né la soglia minima di copertura dei costi. O accetti oppure il tuo prodotto lo puoi buttare, tanto lo importano dall’estero (i supermercati Alì in piena estate vendono il pomodoro belga!).

Nel frattempo l’UE non resta ferma e sta negoziando un accordo con i paesi del Mercosur (Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay), il cui obiettivo è facilitare gli scambi tra le due parti e, nel frattempo, allentare gli standard ambientali e ridurre i prezzi.

Quando sentite un tizio esaltare il “libero mercato”, prendetelo per i capelli e sbattetegli la testa contro uno spigolo. Ripetutamente, ma spiegandogli che ciò che gli state applicando con determinazione e coerenza è l’esercizio del libero mercato, quello dominato dal più forte. 

3 commenti:

  1. è che non è libero, il mercato

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  2. La PAC (Politica Agricola Comunitaria) è stata la prima azione sostanziosa della CE, poi UE.
    L’obiettivo non è cambiato nel tempo: tenere i prezzi alti. A favore di chi? Non necessariamente degli agricoltori. Comunque, le modalità sono consolidate: produrre di meno, distruggere quanto prodotto, chiudere gli allevamenti, sussidiare lo spreco di risorse. Come sempre avviene nel caso in cui si penalizzi il lavoro, monta l’iniquità e anzi l’ingiustizia, che, nel caso di un governo sovranazionale, passa per favorire i paesi più forti e metterlo in quel posto ai paesi più deboli.
    Anziché entrare nelle fresche dispute attuali, guardiamo alla istruttiva storia delle quote latte. All’origine, ci fu un tristo democristo di nome Pandolfi, che per incapacità e ignoranza se lo fece mettere in quel posto dai suoi colleghi centroeuropei. Le quote latte da lui negoziate misero i produttori italiani nella condizione di fallire o barare. Ovviamente bararono, facilmente smascherati dai concorrenti centroeuropei. Il seguito è pagina squallida di intimazioni europee e liti fra politici. Tutto questo, ripeto, sull’altare della necessità di tenere i prezzi alti. Oggi l’altare è il Bene del Nostro Pianeta, ma guarda caso nulla cambia: non coltivare, non produrre, comprare ciò che manca da paesi extraeuropei dove la cosiddetta sostenibilità viene solo dichiarata.
    P.S. Se mi dici dove il formaggio costa 8 euro, faccio il viaggio.

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