Mario Seminerio nei suoi ultimi post prende di mira la pubblicità con la quale il MEF promuove il Btp Valore in asta in questi giorni. Posso essere d’accordo: sotto il profilo dell’educazione finanziaria è discutibile che un ministero presenti la cosa con quel marketing pubblicitario. Sennonché si tratta, per l’appunto, di réclame. Per nulla ingannevole, anche se, come rileva il nostro Cincinnato finanziario, non menziona il rischio connesso all’investimento. Ma non avevamo detto e ripetuto a noia che non esiste investimento privo di rischio?
Questo rischio sui titoli di Stato c’è da sempre. L’Italia, in particolare, ha una storia quasi infinita di debito pubblico che inizia proprio quando la Penisola era divisa in Stati e staterelli tutti comunque più o meno indebitatissimi. Emblematica è infatti la vicenda del debito pubblico dello “Stato romano”, cioè dello Stato pontificio, collocato in particolare all’estero con tassi e spread di molte, molte volte superiori a quelli che oggi spaventerebbero fino a far cadere i governi.
Ciò avveniva quando nel piccolo Ducato di Parma e Piacenza e nel Regno sardo-piemontese, prima dell’avvento di Cavour alla presidenza del consiglio, collocavano il debito pubblico con penalizzazioni (spread) addirittura di 3.000-3500 punti base. Poi Cavour riuscì a ridurre il costo del debito pubblico del Regno sardo-piemontese, tuttavia ciò rimase in seguito il principale problema post risorgimentale, nonostante il rigore di personaggi come Minghetti e Sella (la loro insistenza nella odiosa tassa sul macinato, come ricorda Giolitti nelle sue Memorie della mia vita, Garzanti 1982, p. 46).
Va anche notato, di passaggio, che un debito pubblico al 5% rappresentava un titolo internazionale per eccellenza. E così va anche ricordato che alcuni secoli prima furono innanzitutto i frati italiani appartenenti agli ordini mendicanti a superare la vecchia definizione dell’usura e nel definire il 5% come il tasso praticabile senza incorrere nel peccato religioso e civile dell’usura, ben identificato nell’inferno dantesco.
Lasciamo stare queste facezie storiche e veniamo al dunque attuale. Perché dei soggetti, non solo quelli che nello spot “sembrano disporre di tempo e risorse per andare in crociera”, non dovrebbero acquistare, con una parte del proprio patrimonio liquido e nella prospettiva di un calo dei tassi d’interesse, un Btp che offre, nei sei anni, una tranquilla rendita media del 3,2 per cento, con cedole semestrali e uno 0.7 per cento di premio finale, ossia una pacca sulla spalla?
Lo spostamento delle “italiche formichine” verso le obbligazioni statali non può essere visto di buon occhio da chi lavora nel settore dall’azionario e altre forme d’investimento. E questo si può comprendere, fermo restando il fatto dell’assoluta onestà intellettuale del collega blogger, il quale peraltro riconosce che questo spostamento del gregge in altri pascoli potrebbe “servire a smettere di vendere fondi obbligazionari attivi con commissioni da taglieggio”. E in ciò ci rivela le opportunità assommate del “mercato”. Tuttavia, quando scrive di “debito pubblico in mano a giovanili crocieristi in verosimile quiescenza”, cioè a persone che evidentemente non investono “per arrivare alla quarta settimana del mese”, ebbene il titolo senza scadenza di rosicone se lo fregia in fronte da solo.
Non si tratta di rosicare per le crociere, quanto per il fatto che in crociera ci vanno coi soldi di chi lavora oggi.
RispondiEliminaE tu sei venuto su a pappe pagate da quelli che vanno in crociera oggi (e domani)
EliminaQui ti sbagli, amica, caschi male.
EliminaLasciamo perdere casi personali.
Molti di quelli che oggi lavorano manco protestano perché debbono loro posizione proprio a chi si prende, ogni mese, parte del loro salario. Non è mio caso.
Considerare la crociera un bene di lusso è di un provincialismo intollerabile: ormai in crociera ci vanno anche le casalinghe in pensione. La crociera è una vera crociera se la barca è tua ed è lunga almeno 100 piedi.(nel nostro ambiente non si usano i metri).
RispondiEliminabravo Martino
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