domenica 10 gennaio 2021

La fiduciosa attesa di Angus Deaton

 

Quando ci imbattiamo nella definizione di un determinato concetto, facciamo male a trascurare il metodo dell’analisi meramente linguistica della stessa denominazione. Le parole che pronunciamo, talvolta, sono molto più “intelligenti” di noi.

Segrej M. Ejzenstein

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Un vecchio amico mi segnala un articolo di Angus Deaton, economista scozzese e Nobel per l’economia, dal titolo: Repubblica degli ineguali.

Merita di essere letto fino in fondo, soprattutto da chi crede ancora in buona fede che gli Stati Uniti d’America siano il paese della libertà e delle opportunità, ignorando la situazione economica e sociale in cui vivono, non da oggi, centinaia di milioni di persone.

Gli Stati Uniti sono certamente il paese del progresso scientifico e tecnologico, ma intriso di aspre contraddizioni e campione di stridenti disuguaglianze tra le classi sociali, specie tra chi – e su ciò insiste Deaton – può far valere un titolo di studio universitario e chi invece deve accontentarsi di umili lavori e corrispondenti bassi salari, ossia quelle persone che l’algida Hillary Clinton definì come “the deplorables”.

Non si tratta solo della vecchia storia di discriminazioni e disuguaglianze di “pelle”, sottolinea Deaton, poiché ormai questa storia non riguarda “una sola razza”, ma anche i “bianchi meno istruiti”. “L’America – continua il professore – è orgogliosa di essere una meritocrazia, ma oggi è una meritocrazia enormemente ineguale”. Non solo il merito fa la differenza, ma in essa c’è anche molto inganno, perché le opportunità non sono uguali per tutti e le regole del gioco sono dettate dai “meritocratici” stessi.

Differenti livelli di reddito, di ricchezza personale e famigliare, incidono sulla qualità di vita, il benessere psicologico, le relazioni sociali, la salute e la possibilità di vivere più a lungo. Se questa situazione è comune a ogni paese, negli Stati Uniti assume connotati che noi europei giudicheremo inaccettabili, nonostante le cose siano molto peggiorate negli ultimi decenni anche nel nostro recinto.

Tutte cose delle quali peraltro ho scritto più volte in questo blog: segregazione razziale, altissimo numero di carcerati (con rapporto prevalente di neri), ricorso massiccio di buoni alimentari federali per tirare a campare, spionaggio sistematico della popolazione, uso indiscriminato della violenza da parte della polizia, eccetera. Segnalo un paio di post, per gradire: qui e qui.

Pertanto ho letto con una certa soddisfazione l’articolo del prof. Deaton, e tuttavia ritengo inaccettabile che un economista premio Nobel si astenga anche solo dal menzionare le cause prime sulle quali si fonda e riproduce incessantemente questo stato di cose. E ancor più indispongono le sue conclusioni, quando si limita a balbettare: «Ho qualche speranza per il futuro se non altro perché coloro che stanno per assumersi la responsabilità comprendono appieno tutte queste questioni, ma non hanno un compito facile davanti a sé».

È il tipico atteggiamento di speranzosa attesa e d’inappagabile fiducia riposto nel sistema vigente da parte di chi in esso è ben inserito, dispone di un reddito adeguato e ha la ragionevole sicurezza di mantenere inalterato il proprio status sociale finché tutto rimane e prosegue sostanzialmente immutato.

Del resto una certa frazione della classe dominante è disposta a farsi criticare, ma non fino al punto di sentirsi dire che nell’insieme si tratta di un sistema di rapina irriformabile, perché in tal caso non ti assegnano una cattedra universitaria e tanto meno il Nobel.

Eppure è chiaro come il sole che il capitalismo si definisce per la propria incapacità di assicurare una crescita armonica, uno sviluppo proporzionato nei diversi settori produttivi e una redistribuzione decente della ricchezza socialmente prodotta.

Tuttavia gli eminenti “critici” del capitalismo restano ben lontani dal mettere in luce i motivi reali del processo di oggettiva e spinta polarizzazione classista dell’intera società.

E quando le crisi economiche e sociali minano alle fondamenta la specificità democratica dello Stato, incapace di trasformare le disuguaglianze economiche in consenso politico, basta ridefinirlo in forme più autoritarie in nome della sicurezza e dell’emergenza.

Per quanto riguarda lo sfruttamento sconsiderato e dissipativo della natura, le crisi ambientali che assumono sempre più il carattere di catastrofi irreversibili, ci viene detto che ciò è indotto dalla brama dei singoli agenti economici, e non già dalle immanenti dinamiche antitetiche del modo di produzione borghese.

Infine, bisogna dire per onestà che la vasta classe media americana ed europea, oggettivamente proletarizzata e senza prospettive, privata di una propria coscienza di classe e sottoposta a una propaganda incessante con mezzi potenti, non è in condizione di mutare i tratti psichici e le convinzioni ideologiche che le sono imposte, pertanto di opporre una qualsiasi efficace resistenza e di porre in essere un processo di cambiamento radicale. In tutto ciò la classe dominante ha vinto alla grande. Almeno per ora.

13 commenti:

  1. Io non so darmi ragione del perché in una società del genere si faccia tanta fatica a capire che la soluzione è abbattere il sistema su cui poggia. Certo, la "propaganda incessante con mezzi potenti", le "convinzioni ideologiche che le sono imposte"... Ma tutto questo è sovrastruttura. Com'è che, con tutto ciò che esplicitano, le condizioni materiali non riescono ad essere terreno fertile per una coscienza di classe?

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    1. Caro vecchio amico, un momento prima di accedere al computer e leggere questa tua riflessione, a mia volta riflettevo sul fatto che una persona istruita, razionale e per molti versi spietatamente critica, potesse dar retta a quello che, dal televisore, diceva un prete.

      E qui siamo solo all’aspetto dell’alienazione religiosa, extraterrena, per così dire; quanto all’alienazione terrena la faccenda si complica e si fa apparentemente ancora più misteriosa.

      Ciò che appare come processo di valorizzazione del capitale – il lavoro salariato – è solo un lato del fenomeno, sia pure quello fondamentale. Riflettiamo dunque: insieme alla forza-lavoro il lavoratore aliena la sua stessa vita reale e cioè la totalità della sua attività (per molte ore al giorno la sua vita appartiene a un padrone), attività che gli è estranea nello scopo ultimo e finisce per rivolgersi contro di lui, scindendolo ed estraniando da se stesso.

      Il “cretinismo operaio” è il risultato di questo processo drammatico quanto ineluttabile, di svuotamento delle capacità e di ogni altra abilità o sapere. Ne ho conosciuta tanta di questa povera gente che, dopo una settimana di lavoro, non trovava altro svago che l’osteria, il calcio, ecc..

      Inoltre, Marx poteva osservare da par suo:

      «Non basta che le condizioni di lavoro si presentino come capitale a un polo e che dall’altro polo si presentino uomini che non hanno altro da vendere che la propria forza-lavoro. E non basta neppure costringere questi uomini a vendersi volontariamente. Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione» (Il Capitale, I, VII, 3).

      PS: caustica e puntuale quella tua di Schopenhauer. Un bacione sulla fronte.

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  2. «Quando le crisi economiche e sociali minano alle fondamenta la specificità democratica dello Stato, incapace di trasformare le disuguaglianze economiche in consenso politico, basta ridefinirlo in forme più autoritarie in nome della sicurezza e dell’emergenza.»
    A margine di tale superlativo capoverso, domando... no, constato: alla luce della emergenza in corso si vede proprio come neanche questo "autoritarismo" inutile e pernicioso abbia contribuito a produrre una minima "coscienza di classe". Anzi: è proprio la classe media a confidare nella virtù del "governo forte" dell'«autorità», del «pugno duro dello Stato». E pensare che 40/50 anni fa tali misure restrittive avrebbero sicuramente prodotto, se non una rivoluzione, almeno una rivolta. Adesso, invece, niente. Tutti (o quasi) fissati e intimoriti davanti al bollettino, lasciamo che la democrazia ci sfugga di mano e diventi un ferrovecchio, qualcosa di cui si può anche fare a meno, purché lo Stato ci salvi.

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    1. Hai ragione, ma 50anni fa le cose erano molto diverse da tanti punti di vista. I media, per esempio, non avevano la pervasività attuale, il clima politico diverso e anche noi eravamo di altra pasta, ecc.

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    2. Avevamo 50 anni in meno e la voglia di rivoluzionare il sistema politico e sociale uscito dalla guerra.
      un saluto roberto b

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  3. Ogni società ha i suoi modi per garantire la permanenza del privilegio in capo alle classi dominanti. Per esempio, in Italia c'è il familismo clientelare e relazionale (le raccomandazioni, per usare un linguaggio terra terra) Negli Stati Uniti il meccanismo familistico non è certo sconosciuto (fare un check sulla ricorrenza dei cognomi dei presidenti nel secolo XX) ma vi si riscontra un marcato imprint "meritocratico", che ha la virtuosa caratteristica di riferirsi alle "buone scuole", e in particolare all'università frequentata. Patente la differenza con l'Italia, dove abbiamo fior di politici, imprenditori, sedicenti intellettuali che sono privi di uno straccio di laurea. Da loro, invece, uscire da un'università di prestigio è il miglior viatico per una vita nella classe privilegiata. Detta così, sembrerebbe qualcosa di vicino, se non coincidente, con la dichiarata meritocrazia. Ma se andiamo a vedere come succede veramente, scopriamo che sono i rampolli dei genitori privilegiati che si laureano negli atenei privilegiati, indipendentemente dal "merito". Come risulta chiaramente da questo studio della Georgetown University (spiace citare i gesuiti, ma se lo dicono loro deve per forza essere vero). Si veda, in particolare, l'impressionante grafico "Class Impacts College Enrollment and Completion Rates"
    Spiace anche fare una battuta troppo ovvia, ma sembrerebbe proprio che i deplorables non solo siano tali a vita, ma che trasmettano la deplorevolezza ai figli e ai figli dei figli.

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  4. Vedo che avevo dimenticato di aggiungere il link https://cew.georgetown.edu/cew-reports/schooled2lose/

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    1. domani mattina mi sarebbe servito
      non succeda più o ti licenzio

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    2. pare non sia solo una questione di status sociale:
      Il divario nel successo degli studenti varia anche in base alla razza. Gli alunni di terza media neri (51%) e latini (46%) con punteggi in matematica nella metà superiore hanno maggiori probabilità di conseguire una laurea entro 10 anni rispetto ai loro coetanei con punteggi in matematica nella metà inferiore (23% e 22%, rispettivamente). Tuttavia, hanno ancora meno probabilità di conseguire una laurea rispetto ai bambini bianchi (62%) e asiatici (69%) del decimo anno con punteggi nella metà superiore.

      ho esperienza diretta che in genere gli "asiatici" ottengono performance migliori in matematica. avevo letto che ciò dipende anche da un tipo diverso d'approccio alla matematica fin da bambini. ma non so dire esattamente.

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    3. Che ci fosse una discriminazione in base alla razza era abbastanza noto. Invece quella in base al reddito delle famiglie confligge con la vulgata meritocratica. Naturalmente, c'è sovrapposizione fra l'insieme dei poveri e l'insieme dei non bianchi. C'è anche sovrapposizione fra élites urbane e liberals, come dicevo nel commento al precedente post. Quest'ultima sovrapposizione è praticamente un'identità.

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  5. Ma fino a quando il deserto della gloria
    non avrà tappato le mie labbra,
    io canterò i ponti e le barriere,
    io canterò i posti più semplici.

    Ma fino a quando nelle reti
    non mi sono impigliata – delle tortuosità della gente,
    io prenderò - la nota più difficile,
    io canterò l’ultima vita!

    Il lamento delle ciminiere.
    Il paradiso degli orti.
    La vanga e il dente.
    Il ciuffo degli imberbi.

    Giorno senza data.
    Il salice appassisce.
    Vita senza fodera:
    di sangue odora!

    I sudati e i robusti,
    i sudati e gli scarni:
    « Allora, in piazza?! »
    Come sulle tele -

    come sulle tele
    soltanto – e nelle odi:
    il ruggito dei disoccupati,
    il ruggito degli imberbi.

    Inferno? - Sì,
    ma anche giardino – per
    donne e mogli di soldati,
    vecchie cagne,
    piccoli bambini.

    « Un paradiso con risse?
    Senza le conchiglie
    delle ostriche?
    Senza lampadario?
    Con le toppe?! »

    Fate male a piangere:
    a ciascuno -
    il suo.

    Qui le passioni sono scarne e rugginose:
    dinamite degli Stati!
    Qui spesso scoppiano incendi:
    la barriera brucia!

    Qui odio all’ingrosso e a mucchi:
    mitragliatrice delle rappresaglie!
    Qui sovente ci sono diluvi:
    la barriera nuota!

    Qui piangono, qui è tintinnio e ululati
    il silenzio dell’alba.

    Qui adolescenze portate via sotto scorta
    cinguettano: « Scherzi! »

    Qui si paga! Qui: con Dio e col Diavolo,
    con la gobba e con il sacco!
    Qui le giovinezze, come su un morto,
    cantano su se stesse.

    Qui le madri, addormentato il bambino…
    (Ponti, sabbie, croci delle barriere!)

    Qui, venduta la minore al mercante per un bicchiere,
    i padri…
    - Cespugli, croci di ortiche…

    - Lascia.
    - Perdona.

    IL POEMA DELLA BARRIERA
    23 aprile 1923
    Marina I. Cvetaeva

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