Se avete apprezzato, che so, I miserabili di Hugo, oppure Port Royal di quell’”imbecille” Sainte-Beuve
(il complimento non è mio), allora La storia
di Genji, l’opera suprema del canone classico nipponico, potrebbe
deliziarvi fino al punto da farvi balenare l’idea, non solo bizzarra ma
temeraria, di cimentarvi con la lingua giapponese.
Il volume einaudiano a vederlo mette
soggezione poiché consta (in edizione economica, esiste anche in due volumi in
ediz. di pregio) di 1235 pp. in corpo 11, più circa 150 pp. di note in corpo 6,
il tutto preceduto da XLVII pp. d’Introduzione. Opera in prosa, ma intercalata
di meravigliose strofe poetiche, tradotta dal giapponese da Maria Teresa Orsi, è composta da
54 capitoli redatti durante il periodo Heian (*), scritta da una nobildonna nipponica,
Murasaki Shikibu, dama di corte (sulla biografia, l’Introduzione, p. XLIV e
sgg). L’autrice scriverà anche un breve diario e una raccolta di poesie.
Si tratta, come detto, della massima
espressione del canone letterario nipponico e di una delle opere più
significative della letteratura mondiale. Riguarda la vita, dall'infanzia alla
morte, di un principe della corte reale di nome Genji, nell’ambito della sua famiglia e dei suoi conoscenti. L’opera
è incentrata sul palazzo imperiale e sulle case aristocratiche nell’antica
capitale Heian-kyō, ossia nel
sito della moderna Kyoto (la città che, nubi permettendo, doveva essere il
bersaglio atomico al posto di Nagasaki).
Sono raffigurate le vite domestiche della
classe dirigente giapponese dell'epoca e la cultura complessa e sottile che fu
sviluppata nell’ambito di un ordine sociale assai rigido ma descritto con
delicatezza e grazia. Una caratteristica notevole di La storia di Genji è la sua sensibilità verso il mondo naturale: fiori,
alberi, il vento e la pioggia, il sole e la luna, il mutare delle stagioni,
svolgono un ruolo significativo nel modo in cui i personaggi comprendono le
loro relazioni e le proprie emozioni.
Si ritiene che l’opera sia stata scritta tra
il 1000 e il 1012, ma il lavoro di trascrizione è del poeta e calligrafo
giapponese Fujiwara no Teika (1164 - 1241). Le sue
trascrizioni dei capitoli precedono qualsiasi altra versione di Genji di 300 anni. Finora si riteneva si
fossero conservati solo quattro capitoli originali di tale trascrizione.
Il mese scorso il Reizeike Shiguretei Bunko,
ossia la fondazione per la conservazione del patrimonio culturale giapponese,
ha annunciato la scoperta della più antica copia scritta di un altro capitolo
di Genji, dunque un quinto capitolo
originale della trascrizione (denominato Wakamurasaki),
cioè quello in cui è descritto l’incontro del protagonista, il figlio
dell’Imperatore giapponese, con la sua futura sposa. Secondo il Guardian, la fondazione ha detto che il
manoscritto ritrovato per lo più corrisponde alla versione nota, con alcune
differenze grammaticali.
Sembra che questo capitolo inedito sia stato
ritrovato nel ripostiglio della casa di Tokio del 72enne Motofuyu Okouchi, discendente di un
antico clan di samurai, del dominio feudale di Yoshida (da non confondere con
il distretto di Yoshida della prefettura di Fukui) incentrato sull’omonimo
castello nella città che oggi è Toyohashi, nella prefettura orientale di Aichi.
Appartiene alla sua famiglia dal 1743, cioè da quando fu tramandato dalla
famiglia Kuroda del dominio feudale di Fukuoka, nella provincia di Chikuzen. La
calligrafia del testo (122 pagine) e la copertina, simili a quelle dei quattro
capitoli già riconosciuti, sembrano confermare l’attribuzione a Teika.
Di più non dirò, non voglio rovinarvi il
piacere di scoprirlo.
(*) Il periodo Heian (794-1185) fu, almeno
al suo inizio, significativo per il suo vasto prestito culturale dalla Cina, governata
dalle dinastie Tang e Song. Tuttavia al momento della composizione di La storia di Genji, il Giappone si era
spostato verso un maggiore isolamento culturale in cui le tradizioni native
giapponesi avevano cominciato a riaffermarsi. È il periodo in cui il buddismo
si diffuse in tutto il Giappone e i personaggi dell'opera hanno una visione
distintamente buddista. Solo agli uomini era permesso leggere e scrivere in
cinese e le donne, incluso Murasaki, componevano in lingua giapponese usando la
scrittura autoctona conosciuta come kana.
La scrittura in Giappone fu introdotta
solamente intorno al V secolo e.v., ovvero molto in ritardo rispetto alla
nascita degli ideogrammi cinesi. I giapponesi adottarono inizialmente la
scrittura cinese cercando di adattarla alla grammatica e alla fonetica
autoctona.
Ma porca miseria, a ottant'anni ancora devo finire la Recherche e mi suggerisci 1235 pagine di roba giapponese?
RispondiEliminaMa neanche per sogno. Io sono razzista, nel senso che tutto quello che sta a Est dell'Adriatico mi da' l'orticaria. Israele compreso (vedi "Fuori dall'occidente" di Asor Rosa).
P.S. Il Sushi fa schifo.