Alla
metà del XIX secolo, col prevalere del modo di produzione capitalistico, l’abolizione
della schiavitù negli Stati Uniti d’America si presenta come necessaria tendenza
storica, anche se furono fatti casuali a innescare la guerra civile e a portare
al Proclama di emancipazione.
Accennerò
a quelli che a mio avviso si presentano come due dei più consolidati stereotipi
su quell’epopea, vale a dire, in questo post, sulla condizione generale degli
schiavi nel Sud, e, in un post successivo, tratterò succintamente i motivi realmente contingenti che,
nel corso della guerra civile americana (1861-1865), portarono al Proclama di emancipazione.
Per
quanto riguarda le condizioni di vita e di lavoro degli schiavi nelle
piantagioni di cotone degli Stati del Sud, la filmografia, come nei recenti Dodici anni schiavo e in Django Unchained, tende a far passare
delle situazioni limite, di eccezione patologica, come effettiva condizione generale,
tipizzando un fenomeno che fu invece molto più complesso e sfaccettato. Scrive
a tale riguardo lo storico Raimondo Luraghi:
«In conclusione, circa le condizioni di
esistenza e di lavoro degli schiavi si può dire che il loro livello medio di
vita non era generalmente inferiore a quello comune tra le classi contadine del
Sud. […] limitatamente al cibo, al vestiario e all’abitazione, le condizioni medie
dello schiavo del Sud erano certamente migliori di quelle del mugik russso, del
contadino polacco, ungherese, calabrese o siciliano od anche, in molti casi,
della Val Padana» (La guerra civile
americana, 2015 (5), p. 57).
Per
un raffronto sulla stessa epoca, basti pensare alle condizioni di vita e di
lavoro degli operai inglesi così come descritte da Marx ne Il Capitale sulla base dei rapporti degli ispettori di fabbrica
inglesi, dei relatori medici sulla Public
Healt (salute pubblica), dei commissari d’inchiesta sullo sfruttamento
delle donne e dei bambini, sulle condizioni delle abitazioni e della
nutrizione, ecc.. Qui sotto, in nota, ne offro uno scampolo (*). Nel resto
d’Europa le condizioni del proletariato industriale e dei contadini non furono
certamente diverse e migliori.
Scrive
Luraghi: «Oggidì non è certo più
possibile accettare la tesi di grandi scrittori come Tocqueville o di
autorevoli viaggiatori come Olmsted, secondo i quali la nota caratteristica del
Sud era la schiavitù: in effetti tale istituzione (la “peculiare istituzione”
del Sud, come gli stessi sudisti la chiamavano) è oggi scomparsa da un secolo:
e pure il Sud conserva tuttora i suoi caratteri inconfondibili che ne fanno, in
seno all’Unione, qualcosa che sta del tutto a sé. Non si può tuttavia negare
che la schiavitù contribuisse a caratterizzare “una civiltà che il tempo ha
tinto con sfumature di leggenda romantica”, per citare Arthur Schlesinger»
(p. 49).
Certo,
la schiavitù quale forma più cruda e primitiva di sfruttamento del lavoro non
fu condizione in generale migliore rispetto a quella del lavoratore della
catena fordista. Innanzitutto perché lo schiavo non aveva alcun diritto (per
quanto non ne avessero nemmeno i salariati fino a una certa epoca), e non era
spesso considerato nemmeno come una persona, perciò era del tutto esposto
all’arbitrio del proprio padrone. Due erano le conseguenze più drammatiche e sciagurate,
ossia il fatto che i padroni potevano disporre liberamente delle schiave e, altrettanto
odioso, il fatto che i figli degli schiavi potevano, a una certa età, essere
separati dai loro genitori. Nonostante la tratta fosse stata proibita, il
commercio interno di carne umana prosperava.
Non
vi era nulla che potesse salvaguardare lo schiavo delle piantagioni? In realtà
– scrive sempre Luraghi – non era così. Anzitutto lo schiavo rappresentava un
capitale prezioso, e a nessuno verrebbe in mente di distruggere o danneggiare
la propria ricchezza. E qui – soggiungo a mia volta – si può notare una decisiva
differenza tra la condizione dello schiavo e la condizione dell’operaio,
laddove la libertà di quest’ultimo è presupposto della moderna forma di
sfruttamento, di servitù economica mediata e dissimulata dalla vendita di se
stesso.
Infatti,
l’operaio esiste come tale soltanto laddove un capitale esiste per lui, anzi esso
appartiene al capitale prima ancora di essere venduto al capitalista, ma al
termine del processo lavorativo, l’operaio e il capitalista ritornano estranei
l’uno all’altro, e dunque stanno in rapporto d’indifferenza l’uno all’altro,
esterno e casuale. Non appena il capitale non esiste più per l'operaio, questi
non esiste più per se stesso, non ha più nessun lavoro e perciò nessun salario,
e poiché esiste non come uomo, ma come operaio, può lasciarsi morir di fame,
oppure, sopravvivere di assistenza pubblica e di carità.
Scrive
Luraghi: «Olmsted [un convinto e
acceso abolizionista] cita il caso di una
piantagione ove il lavoro di bonifica dei terreni paludosi (che era malsano)
era affidato a braccianti irlandesi, perché (disse il padrone) “la vita di un
negro vale troppo per arrischiarla in un lavoro del genere. Se un negro muore,
la perdita è considerevole, sapete”. O il caso di un proprietario di schiavi
che, navigando su un battello fluviale presso Wilminton nella Carolina
Settentrionale, si mostrava preoccupatissimo durante le operazioni di sbarco
della sua “proprietà” come se avesse avuto a cuore le vite degli schiavi più di
quanto non l’avessero gli schiavi stessi; e si potrebbe continuare» (p.
64).
Senza
voler dipingere un quadro troppo idilliaco della situazione degli schiavi
americani, e cercando per contro di non caratterizzare coi consueti toni
apocalittici la loro vicenda umana e storica, va rilevato che vi erano le
punizioni con la frusta, tuttavia rilevando che «Tutti i viaggiatori provenienti dal Sud concordano su questo punto:
solo nelle piantagioni dove gli schiavi erano ben trattati (in media meglio di
quanto lo fosse un bracciante nel Nord), essi lavoravano se non con entusiasmo
per lo meno con lena; altrove essi erano svogliati e pigri all’inverosimile, e
la loro svogliatezza cresceva in ragione inversa del trattamento».
Il
citato Olmsteld fu ospite in una piantagione dove la frusta non veniva
assolutamente usata e gli schiavi mangiavano lo stesso cibo del padrone, lui in
sala da pranzo e loro nella cucina con la porta di comunicazione aperta. I neri
organizzavano da sé il lavoro e non c’erano capisquadra. Questa situazione non
era generale ma nemmeno rara. Rileva Luraghi (p. 55) che quella
dell’alimentazione era indubbiamente la pagina meno nera della schiavitù,
poiché, come detto, non era interesse di alcun proprietario che gli schiavi
fossero denutriti.
Mezzo
secolo dopo, invece, la condizione dei braccianti veneti, come insegna la
drammatica vicenda della contessa Onigo (vedi il racconto che ne fa Mazzocato),
fu ben diversa e le ribellioni/repressioni nelle campagne assai frequenti e
cruente (vedi Emilio Fanzina, Il Veneto
ribelle; Paolo Gaspari, Le lotte
agrarie), per non dire delle condizioni dei contadini e degli zolfatari
siciliani (v. G. Romanato, L’Italia della
vergogna nelle cronache di Adolfo Rossi), ecc..
A Rosarno, oggi, vengono trattati meglio? Nelle concerie e fonderie vicentine sono sfruttati di meno?
A Rosarno, oggi, vengono trattati meglio? Nelle concerie e fonderie vicentine sono sfruttati di meno?
«Un certo sollievo alla monotonia della
dieta – continua Luraghi – era tuttavia ottenuto grazie alla
consuetudine che consentiva agli schiavi di coltivarsi un proprio orticello e
di tenere pollame, conigli e maiali di loro proprietà [anche se a rigore
non avevano alcun titolo giuridico per la cosa]. L’orto era in genere situato presso l’abitazione del negro».
E
però c’erano, sia pur non frequenti, anche i linciaggi; e che cosa c’è di più
orribile di vedere appeso a un albero “quegli strani frutti”, per dirla con
Billie Holiday? Racconta Luraghi che nel Texsas, Olmsted «sentì narrare da una donna la vicenda di una negra la quale presso
Fannin aveva massacrato la sua padrona e due bimbi di questa a colpi d’ascia:
era stata impiccata seduta stante». Personalmente credo si potesse finire
appesi per il collo per molto meno! La più «valida
salvaguardia – prosegue Luraghi – contro gli orrori della schiavitù era data
dal carattere generalmente bonario, mite e tollerante della gente del Sud, e
specialmente della élite di piantatori». Eh già, le élite sono élite,
direbbe ironicamente un mio amico. Per quanto siano bonarie e tolleranti le
classi dominanti hanno il vizio di spiritualizzare lo sfruttamento più ignobile
e di sacrificare la vita altrui per il proprio vantaggio, la borghesia in nome
di una redditività che, divorando tutto, finirà per divorare sé stessa.
Per
comprendere le esatte condizioni degli schiavi americani delle piantagioni
verso la metà del XIX secolo, oggi è di ostacolo anzitutto il nostro concetto
di libertà e di moralità. L’istituto della schiavitù diveniva sempre più
inaccettabile già allora, noi lo avvertiamo come intollerabile. Per contro, lo
sfruttamento dello schiavo moderno, attuato nell’acconcia forma giuridica del
libero scambio, è ancora nel XXI secolo non solo tollerato, ma ne sono esaltate
le performance.
Sembra,
ma è solo apparenza, che gli odierni apologeti del capitalismo non s’accorgano
che si stanno impoverendo sempre di più i salariati e peggiorando le loro
condizioni di vita perché possano arricchire coloro che pongono la salvezza del
sistema nel tema del denaro. Certe cose verranno da sé: questi cantastorie un
giorno meriteranno la stessa ammirevole considerazione che noi oggi riserviamo
agli schiavisti di un tempo.
Nel post che seguirà, sullo stesso argomento, cercherò di porre in luce, in breve, i
reali motivi contingenti che portarono al Proclama
di emancipazione (che non significò ipso
facto la liberazione di tutti gli
schiavi americani), motivi che avevano molto più a che fare, secondo le stesse
parole di Lincoln, con la strategia per piegare la resistenza degli Stati del
Sud che non con l’effettiva e precipua volontà di liberare gli schiavi e farne
dei lavoratori “liberi”.
l'ottimo post mi dice quanto sia vantaggioso non avere retaggi medievali: le figure dello schiavo, del servo e dell'operaio si sono presentate quasi assieme, determinate in ciò dal aver praticamente saltato l'età della rendita agricola "pura" per presentarsi da subito come messa a valore capitalistica delle piantagioni.
RispondiEliminaIn un primo momento il fondamento schiavista accelera l' accumulazione originaria, ma poichè in tema di valorizzazione si può fare sempre di meglio, esso diviene un freno alla formazione di un sistema-paese ben più omogeneo nelle componenti di comando.
Una omogeneità che si rende necessaria alla proiezione mondiale del Capitale americano che negli States è naturalmente recepita, favorita dalla particolare aggregazione internazionale del corpo sociale e, al contrario, dalla sua scarsa stratificazione, ancora una volta determinata dallo scarso peso di vincoli storici.
il commento è illuminante perché c'entra soprattutto un tema generale, ossia quello relativo, come tu dici, alla formazione di un sistema-paese ben più omogeneo nelle componenti di comando.
RispondiEliminaciò indubbiamente costituiva una tendenza verso la quale prima o poi anche in america si sarebbe approdati, volenti o nolenti, tanto è vero che la guerra civile, nata su motivi casuali, aveva per fine proprio lo scontro, sottotraccia, per l'egemonia politica ed economica (il ricatto del cotone di cui dirò nel prossimo post), che fino ad allora era stata in mano al Sud. a tale riguardo è interessante notare che gli Stati "intermedi" si divisero grossomodo equamente tra l'appoggio al Sud e al Nord.
Tornando al mondo d'oggi, ci sono forme raffinate e subdole di schiavitù attuate colle più sofisticate tecnologie e sono schiavitù molto ma molto più pericolose e distruttive non del fisico, ma della mente, a 'sto punto vale zero il retaggio storico anche perché l'Europa ha perso tutti i legami annessi e connessi, schiavi docili e manipolabili come burro e convintissimi di essere liberi.
RispondiEliminaCaifa.
Immigrazione di massa è deportazione di massa:
RispondiEliminahttp://www.pandoratv.it/?p=8121&doing_wp_cron=1465487065.1737771034240722656250