domenica 5 giugno 2016

Non è più tempo per essere felici

Il lavoro salariato è una delle forme storiche di sfruttamento del lavoro umano, e su tale base, com’era successo per tutti i precedenti modi di produzione, si è venuta affermando un’intera società, quella borghese, con una sua peculiare visione del mondo, quindi dei rapporti sociali, una sua cultura e scala dei valori, ossia una sua ideologia.

Pur essendo il lavoro salariato una dura e cupa forma di sfruttamento del proletariato, la società borghese, da una certa epoca in poi, ha saputo creare per le classi dominate dei paesi industrialmente più avanzati delle condizioni di vita tollerabili e di benessere materiale, cosicché le classi sfruttate non sono più disposte, in generale, ad opporvisi con una ribellione di massa (*).

Tale risultato non è stato ottenuto per l’intrinseca “bontà” della classe proprietaria, ma come conseguenza naturale e necessaria dello sviluppo economico, laddove la spinta all’innovazione e al miglioramento dei fattori economici ha condotto la società capitalistica ad un’espansione produttivistica senza eguali nella storia.



Tuttavia, la stessa legge che spinge il capitale a sviluppare all’infinito la tecnologia e la tecnica per sfruttare il lavoro, dunque per ridurre la parte di lavoro pagato all’operaio rispetto a quello non pagato, contiene in sé le cause di quei fenomeni che vanno sotto il termine di “crisi”. Lo sviluppo delle forze produttive entra in contrasto con la forma e la natura che esse assumono nel modo di produzione capitalistico, cioè con i rapporti di produzione esistenti (per una chiara esposizione della questione: qui).

La crisi, tendenza necessaria dello sviluppo del capitalismo, da crisi di ciclo, cioè caratterizzata da fasi di depressione economica alternata a fasi di marcata ripresa, si trasforma in crisi generale-storica del modo di produzione capitalistico, ossia in stagnazione permanente con gravi e persistenti rischi d’implosione finanziaria. Crisi generale, perché crisi di tutta la formazione sociale; crisi storica, poiché la materia sociale prodotta dal modo di produzione capitalistico ha raggiunto, nel dominio reale totale, la sua “massa critica”: ogni ulteriore espansione è insieme processo di esplosione/implosione, di massima diversificazione e di collasso autodistruttivo.

Questa situazione di lungo periodo impone alla classe dominante di sviluppare strategie sempre più rigide di controllo della materia sociale e di farle operare come “controtendenze” alla crisi. Ciò è evidente nelle politiche che puntano a ridurre sempre più, da un lato, quello che resta del welfare, e, dall’altro, a comprimere gli spazi di partecipazione democratica introducendo modificazioni nella legislazione e nella partecipazione politica diretta.

Soprattutto le misure economiche e sociali, che rendono a un numero sempre maggiore di persone meno tollerabile le loro condizioni di vita, favoriscono la protesta di ampi strati sociali che guardano con interesse i movimenti politici che si dichiarano contro l’attuale sistema politico e contro l’attuale modo di distribuzione della ricchezza. In realtà, quanto alle misure di vario ordine che tali movimenti propongono come soluzione dei problemi, se attuate, esse potrebbero rivelarsi, nella migliore delle ipotesi, come dei parziali e temporanei lenitivi.

Infatti, tali movimenti non possono validamente opporsi alla direzione del cambiamento epocale indotto dalla rivoluzione tecnologica e dal movimento del capitale, tanto più perché sospinti e viziati nel proprio presupposto politico di riforma che ha ad oggetto un sistema le cui contraddizioni reali non si lasciano irretire da proclami e arrangiamenti, né da misure più eque di distribuzione della ricchezza.

Resta aperto il tema di come rivoluzionare gli attuali rapporti sociali di dominio senza correre il rischio di riprodurli in una nuova versione. E per far questo non basterà declinare in ogni salsa le parole libertà, democrazia, cambiamento o rivoluzione. La crisi maturerà le condizioni materiali e soggettive necessarie a questa inedita trasformazione sociale e antropologica. Sempreché l’umanità non trovi modo di suicidarsi prima.


(*) Non basta che le condizioni di lavoro si presentino come capitale a un polo e che dall’altro polo si presentino uomini che non hanno altro da vendere che la propria forza-lavoro. E non basta neppure costringere questi uomini a vendersi volontariamente. Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione (Il Capitale, I, VII, 3).

10 commenti:

  1. Continuare a sfornare figli senza preoccuparsi della vita di merda che faranno ... non è un atto d'amore. E' l'azione più stupida ed ignorante che l'umanoide possa compiere sul pianeta.
    Gli schiavi non dovrebbero più procreare. Scopare sì procreare no. Dovrebbero andarsene all'altro mondo senza lasciare traccia. Così il padrone in qualche decennio non avrebbe più schiavi da frustare. Questa è la vera rivoluzione. L'unica, la sola. Ogni altra ipotesi di cambiare il mondo è come tentare di svuotare l'oceano con un chucchiaino..

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    1. ...azzo! non averci pensato prima così ci risparmiavamo il capitalismo, anzi l'intera storia della civiltà e pure i commenti dell'ultimo dei mohicani

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    2. Gli schiavi non dovrebbero più procreare. .... Dovrebbero andarsene all'altro mondo senza lasciare traccia.

      Guarda che proprio questo era il problema che angustiava i capitalisti del mondo antico ; gli schiavi , fondamentale "forza motrice" non volevano ne riprodursi ne campare abbastanza per guadagnarci abbastanza sopra .
      Da qui poi l' innovazione dell' "operaio" , schiavo "volontario" in quanto "abbondante" .
      Ma oggi e' l' "abbondanza" il problema del capitalista attuale la cui soluzione sarebbe semplice (guerre... pandemie ect ) se non fosse che eliminando "l' abbondante" finirebbe anche il "volontario" ritornando quindi ai problemi dei "Faraoni" e dando ragione a Vico una volta di più.

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  2. "La crisi maturerà le condizioni materiali e soggettive necessarie a questa inedita trasformazione sociale e antropologica".

    Quindi cara Olympe, secondo lei, la crisi che viviamo (a livello globale oramai) non ha ancora maturato le condizioni materiali e soggettive per una trasformazione sociale e antropologica?

    La mia è un'innocente domanda.

    Saluti

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    1. Come ogni processo ha bisogno dei suoi tempi, tantopiu che non si tratta di robetta. Ciao

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  3. Tornando al sionismo,segnalo:

    Alan Hart, "Sionismo, il vero nemico degli ebrei"

    recensione su
    http://www.pandoratv.it/

    ciao, g

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  4. Io leggo anche da altri parti teorie che la sempre puntuale Olympe ci regala qua:
    https://www.alfabeta2.it/2016/06/04/salvare-capitalismo-uscire-dal-suo-cadavere/

    Peccato non ci sia un quotidiano o una Tv o un partito che le porti sistematicamente avanti giorno dopo giorno, così come si potrà mai formare una coscienza collettiva minimamente critica?
    Allora le mie flebile e residue speranze svaniscono nel tepore di una primavera che fatica a manifestarsi.
    Grazie per i suoi preziosi contributi Olympe.
    Roberto

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    1. grazie della segnalazione Roberto. Berardi non affronta però la questione da un punto di vista strettamente scientifico, ma da un punto di vista, per così dire, pragmatico, insistendo sugli effetti e non sulle cause. ciao

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  5. la classe operaia è minoritaria dalle nostre parti, e ben presto lo sarà nelle attuali fabbriche del mondo: è la tecnologia, è la crisi, è l' estinzione del plusvalore e della miserabile base -operaia- su cui tutto poggia.

    Lenin ci ha mostrato che un partito rivoluzionario deve essere di minoranza e che solo in situazioni di crisi può essere la gemma che fa partire la reazione chimico-sociale

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