Nel
suo consueto editoriale domenicale, Eugenio Scalfari scrive tra l’altro:
La negazione della
fiducia ai partiti può infatti avere come effetto le seguenti decisioni da
parte dei cittadini che messi insieme costituiscono il cosiddetto popolo
sovrano: 1: astensione dal voto. 2: voto in favore di movimenti o partiti che
si oppongono senza eccezione alla situazione politica esistente ma non
propongono alternative concrete. 3: odio verso la democrazia e consenso ad un
leader che ha o mira di avere pieni poteri. 4: odio verso ogni fase di
immigrazione e misure per impedire l'accesso. 5: desiderio d'una rivoluzione
che mandi a gambe all'aria tutte le istituzioni.
Dunque
la rivoluzione viene solo al quinto e ultimo posto. Non è evidentemente
all’ordine del giorno delle preoccupazioni della borghesia trionfante. Al primo
posto c’è l’astensione dal voto. La dittatura economica del grande capitale
preferisce l’assetto politico che chiamano democrazia. “Sia pure in forma
alquanto attenuata” precisa Scalfari, quella democrazia del “cosiddetto popolo
sovrano”, aggiunge serafico.
La
democrazia che si sostanzia fondamentalmente nel rito elettorale e il cui esito
è condizione di sopravvivenza, di sussidi di disoccupazione, di lavoro
precario, in nero, di ennesime riforme delle pensioni, dell’insicurezza elevata
a sistema di vita. La democrazia di chi vorrebbe fosse distribuito un po’
meglio ciò che viene estorto alla grande. La democrazia dei trattati economici segreti
chiusi in cassaforte. Siffatta democrazia che nonostante tutto di meglio non
c’è.
Non
è forse in atto da decenni un grande processo rivoluzionario che ci coinvolge
tutti, volenti o nolenti? Si può cogliere ovunque quale effetto della grande centralizzazione
capitalistica, dello sviluppo tecnologico con relativa disoccupazione di massa,
nella finanziarizzazione abnorme dell’economia, tanto per dire le trite cose. Cui
si accompagna quel grande processo di mutamento antropologico perseguito da
decenni e che fatalmente ci consegna anima e corpo agli interessi del capitale monopolistico.
Un
grande processo che evolve nella stessa crisi della politica di cui parla ogni
domenica Scalfari, esorcizzando il bisogno di un nuovo assetto politico. Per
dirla esattamente con Marx, è la stessa caricatura che accompagna una nuova
edizione del diciotto brumaio di cui oggi, 9 novembre, ricorre il 216°
anniversario. Ma Scalfari non è tipo di curarsi di erudizione antiquaria.
Processo
di lunga durata che ha già mutato pelle alle nostre società, una nuova poesia
fatta di réclame. La crisi è giudicata senza riserve – negli stessi covi della
grande borghesia –, strutturale e secolare, però tacendo che essa ha la stessa
causa fondamentale di ogni “squilibrio”, ossia il furto continuo del lavoro altrui, lo scambio ineguale ma reso legale tra
padrone e schiavo che nessun pontefice massimo ha mai denunciato e che non scandalizza ormai più nessuno.
Meglio
guardare il dito, la deflazione, un mix di aumento della produttività e calo
dei prezzi e l’enorme massa di liquidità che non trova impiego remunerativo. Quello
stesso movimento di denaro che ha come effetto visibile l’aumento della povertà
da un lato e dall’altro l’accumulazione forsennata.
Approssima
un’ipotesi, formula il tuo vaticinio, la tua idea di riforma, prestati al
giochino, vesti i panni del sociologo, dell’economista, del politico che
declina nel suo latino.
Il
cambiamento è già qui, nelle cose, lo vediamo bene nella violenza di cui
subiamo le conseguenze ogni giorno, attribuita alle cause più disparate o nell’atto
di questo o di quello. Gli trovano subito un’etichetta, un nome, fosse quello dell’immigrazione,
dell’euro, di Merckel o di Renzi.
Certamente
i più avveduti si accorgono che è il movimento del capitale e con esso la lotta
di classe – altrimenti tanto esorcizzata – a creare le circostanze e una
situazione di dominio assoluto della borghesia nella forma più classica, e che a
tale disegno fa agio l’utilizzo di personaggi mediocri e perfino grotteschi nella
parte di protagonisti.
E
però la grande contraddizione da cui originano tutte le altre, la produzione
sociale e l’appropriazione privata, il grande ed inedito sviluppo delle forze
produttive e la miserabile condizione a cui sono ancorati i rapporti sociali
capitalistici, è stata osservata e descritta solo da un certo punto di vista, e
cioè da quello di chi in definitiva accetta questo stato di cose auspicando
qualche lenitivo sulle ferite sociali più purulente. Confidando in Syriza,
Podemos, nella “sinistra”, nei paludamenti sintattici dei leader in cui
dissimulano se stessi nel perseguire illusioni ben retribuite svolgendo il
ruolo dei pifferai magici. Scrive Norma Rangeri nel suo editoriale: “La sinistra italiana c’è. E ha iniziato il
suo viaggio in un luogo aperto al popolo di sinistra”. La solita roba.
Anche abbastanza insipida.
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