C’è un fatto che gli officials monetari sanno bene ma che conviene tacere: il fatto che da quarant’anni in qua il dollaro (e i titoli del debito americano espressi in dollari) ha funto da moneta di riserva pur non possedendo più le caratteristiche adatte, cioè la convertibilità in oro. Questo stato di cose è valso come una droga allo sviluppo del capitalismo su scala globale e al mantenimento della supremazia Usa (e a vincere la "corsa agli armamenti"), ma come ogni droga anche il credito e la finanza basati sul nulla alla fine scontano gli effetti dell’overdose.
In definitiva si torna, prima o poi, ai fondamentali dell’economia e cioè a misurare i valori per quelli che essi sono e non per quello che per troppo tempo si è voluto rappresentare sulla base di carta moneta a corso forzoso. Il motivo dell’ancor modesto rincaro dell’oro è tutto qui: la necessità di ancorare le cose ai fatti e non, come avvenuto fino ad oggi, sacrificare la realtà per salvare le apparenze. La Fed può stoccare quantitative easing e titoli del debito pubblico, ma non potrà farlo all’infinito.
Il denaro, quello vero s’intende, è l’equivalente universale sulla cui misura generale si scambiano tutte le merci, cioè tutti i valori. Da questo punto di vista, e non solo da questo, la lezione marxiana rimane intonsa. Non si tratta però di avere per l’oro o per Marx una fede religiosa, poiché né l’oro e né Marx sono un fine in sé.
Bisogna fare attenzione: le merci non diventano commensurabili per mezzo del denaro. Viceversa, poiché tutte le merci come valori sono lavoro umano oggettivato, quindi sono commensurabili in sé e per sé, possono misurare i loro valori in comune in una stessa merce specifica e, in tal modo, trasformare questa merce specifica nella loro comune misura di valore, ossia in denaro. Tale funzione è svolta dall’oro, ed ecco perché questa merce è tanto importante.
Uno dei motivi fondamentali per cui gli economisti borghesi e gli apologeti del sistema credono di trovare le cause prime delle crisi nell’àmbito della circolazione e non in quello della produzione, scambiando quindi cause per effetti, sta proprio nella sottovalutazione dell’importanza fondamentale del lavoro umano quale unico e assoluto creatore di ricchezza espressa nel valore delle merci e, in definitiva, nella sostanziale sottovalutazione del ruolo che la merce per eccellenza, l’oro, svolge tuttora nello scambio.
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Si consideri l’enorme surplus commerciale cinese (e giapponese) investito in titoli di stato Usa; esso non può, com’è noto, essere convertito in oro, essendo denominato in dollari, ed è pertanto convertibile, entro una certa misura, sul mercato solo in carta; la sua dismissione sul mercato dei titoli avrebbe, quanto meno, queste conseguenze: 1) il deprezzamento dei titoli di debito stessi e la svalutazione del dollaro e 2) l’automatico rincaro delle merci cinesi. Tutto questo senza considerare le questioni di natura protezionistica che inevitabilmente tale situazione solleverebbe (e, anzi, sta già peraltro montando).
Ci sono, invero, delle differenze con la situazione degli anni trenta, e molte. Ne elenco alcune. Roosevelt decise il deprezzamento del dollaro, ossia il rialzo del prezzo dell’oro in dollari che passò, nel 1934, da 20,67 a 35 dollari l’oncia, segnando una svalutazione di circa il 69% del dollaro. Roosevelt decise inoltre un massiccio intervento di lavori pubblici e di sostegno assistenziale. Queste iniziative evitarono che gli Stati Uniti diventassero il secondo paese bolscevico del mondo. Il resto lo fece la guerra.
Oggi, in larga misura, tali condizioni d’intervento dal lato della moneta e della creazione di domanda interna e di nuovi posti di lavoro (quindi dal lato del deficit), esistono ancora ma in misura assai ridotta, anche perché si è scelto di intervenire a favore del salvataggio delle banche. Insomma, salvare capra e cavoli non è possibile, anzi, non sarà salvata né la capra e nemmeno i cavoli.
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