«In un certo senso Karl Marx aveva ragione. Siamo testimoni di una grande crisi rivoluzionaria, una crisi in cui le istanze dell’ordine economico cozzano contro quelle dell’ordine politico (Ronald Reagan, discorso alla Camera dei Comuni inglese tenuto in occasione della sua visita dell'8 giugno 1982)». Naturalmente Reagan si riferiva all'Urss, ma tali parole possono ben testimoniare, a distanza di quasi tre decenni, la situazione in cui si dibatte l'Occidente dopo la sua vittoria sull'Impero del male: gli interessi del capitale, non solo cozzano ogni giorno di più contro l'ordine politico e sociale "democratico", ma nello stesso momento storico, la distruzione irreversibile del pianeta, testimonia il fallimento del sistema ben oltre ogni ragionevole dubbio.
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Una differenza di rilievo tra la crisi economica degli anni Trenta e quella odierna sta nell’enorme accumulo di debito degli Stati, il quale deficit impedisce il mantenimento di politiche di sostegno e di intervento, anzi, impone tagli draconiani a quel welfare “opulento” di cui si è nutrita per decenni la propaganda occidentale, consentendo a centinaia di milioni di persone di vivere soprattutto di superfluo e illusioni. Sullo sfondo del rapido degrado delle condizioni stesse della sopravvivenza, si staglia sempre più imponente una vecchia figura delle società di classe, cioè la povertà, il costante aumento del divario tra ricchi e poveri, l’annichilimento graduale delle classi medie ormai divenute un peso dopo la “vittoria” sullo stalinismo.
Senza il forte e diretto intervento degli Stati occidentali nell’economia e nel welfare, la cosiddetta “guerra fredda”, il confronto tra i blocchi basato sulla colossale proliferazione degli armamenti e la creazione del consenso, avrebbe potuto configurarsi anche con esiti diversi. «Il grandioso successo dinamico del capitalismo – scrisse Reagan nelle sue memorie – ci ha fornito una potente arma nella battaglia contro il comunismo: il denaro. I russi non potrebbero mai vincere la corsa agli armamenti, mentre noi possiamo sperperare all’infinito».
Naturalmente anche l’”infinito” ha un limite, soprattutto se il debito statale è basato sulla “fiducia” dei cosiddetti investitori. L’espansione economica sostenuta dalla spesa (e dallo sperpero) statale alimenta sicuramente l’espansione del ciclo economico e con esso un maggior gettito fiscale, ma questo si rivela di gran lunga insufficiente a coprire le spese, anche per il forte disequilibrio nella distribuzione del carico fiscale e quindi, in definitiva, nella distribuzione del plusvalore prodotto socialmente (Eugenio Scalfari, ogni domenica, nei suoi editoriali di critica laterale, ne auspica una più “equa” distribuzione per far fronte ai drammi sociali causati dalla crisi, senza mettere ovviamente in discussione la sostanza del problema).
L’aver svincolato le monete da ogni rapporto con la realtà del valore economico, ha prodotto per decenni una forte inflazione e una crescente instabilità culminata nei vari tentativi di regolazione dei cambi. Nel 1971, un’oncia d’oro valeva 35 dollari (come stabilito a Bretton Woods); con la fine della convertibilità, in meno di quarant’anni l’oncia ha raggiunto un prezzo 35 volte superiore. E si tratta, a ben considerare, in rapporto ad altri prezzi di riferimento, di un livello suscettibile di ulteriori cospicui innalzamenti a breve e medio termine. Questo non dipende se non in minima parte dalla brama di tesaurizzare ovvero da un motivo eminentemente speculativo, ma è causa soprattutto dell’incertezza e dell’instabilità del sistema economico mondiale, dell’assenza di prospettive positive per il futuro del capitalismo.
Siamo a quella che la pubblicistica chiama “crisi fiscale dello Stato sociale” e che, in effetti, rappresenta la crisi degli istituti di classe come riflesso e fenomeno più generale della crisi del sistema economico capitalistico. Sta di fatto che gli Stati non possono più continuare ad incrementare il proprio debito per sostenere, come in passato, certi livelli di spesa a sostegno dell’economia e dei redditi. Anzi, hanno l’urgente necessità di rientrare dal proprio debito e non solo di ridurne l’incremento in rapporto al Pil, come stanno invece continuando a fare e peraltro senza molto successo. Prepariamoci, quindi, anche in Italia a lacrime e sangue sul modello irlandese, greco ed inglese.
La natura delle contraddizioni, di cui Marx ci ha dato certezza scientifica e che solo i parassiti e gli imbecilli possono ignorare, non permette ad alcuno di farsi illusioni. Infatti sul fallimento del sistema non c'è più da discutere, e nemmeno sulla sua scadenza storica, ma si tratta di trovare dei rimedi, dei palliativi, per poterne protrarre l'agonia. Ecco dunque perché le élites politiche e finanziarie più accorte, preso atto della impossibilità della continuazione del capitalismo nelle tradizionali forme della democrazia illusoria, stanno valutando seriamente di “riformarne” gli istituti, come avevo già accennato in questo post.
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