mercoledì 9 dicembre 2015

Trova motivo anzitutto in determinati rapporti sociali


Sul tema della povertà Jorge Mario Bergoglio afferma che “Marx non ha inventato nulla” e che “i comunisti ci hanno derubato la bandiera. La bandiera dei poveri è cristiana”. Su Marx ha ragione Bergoglio: è un fatto incontestabile che sull’uso profittevole della condizione dei poveri la Chiesa di Roma ha costruito, e spesso difeso con ignominia, le proprie secolari fortune.

Papi e politicanti trovano il motivo della povertà nella politica in generale, ma ciascuno di essi lo trova nella concezione e azione politica degli altri; nessuno parla delle contraddizioni reali alla base di questo sistema economico e nessuno afferma più la necessità di superarle cambiando radicalmente questa società.

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Nel fascicolo di questo mese de Le Scienze compare un articolo di Dean Karlan, tra l’altro professore di economia presso l'Università di Yale e Research Fellow presso il Abdul Latif Jameel Poverty Action Lab del Mit. Insomma uno con i titoli accademici a posto. L’articolo ha per titolo: Più prove, meno povertà. Il sottotitolo è di per sé eloquente del tipo d’approccio che Karlan intende dare alla questione della povertà: Per una lotta efficace alla povertà non bastano denaro e buone intenzioni: servono anche dati su cosa funziona o cosa no.

Si tratterebbe dunque, in estrema sintesi, di un problema di efficienza dei programmi di sostegno alla povertà. Inizia così: «Il problema è che secondo prove recenti il microcredito, pur portando effettivamente alcuni vantaggi, in media non aumenta né il reddito né la spesa per l’alimentazione e la casa, indicatori essenziali del benessere finanziario.

Il fatto che un programma possa ricevere elogi per oltre vent’anni [Muhammad Yunus e la Grameen Bank in Bangladesh hanno ricevuto il Nobel per il loro lavoro, nota mia] e denaro a pioggia, ma non riesca a far superare ai poveri la loro miseria, mette in evidenza la scarsità di prove nei programmi contro la povertà.»

In buona sostanza, ciò che cerca di stabilire Karlan non sono le cause che producono povertà (non è questo il tema della sua affannosa ricerca pluridecennale), ma attraverso i numeri di dimostrare che l’approccio alla povertà dei programmi di beneficenza e di microcredito, in media non riescono ad aumentare il reddito delle persone più povere del mondo.

Non m’interessa qui trattare dal punto di vista storico e sociologico il problema delle povertà, l’origine e le cause principali, cosa che può essere fatta con notevole profitto dal punto di vista scientifico leggendo Marx (anche a riguardo della sovrappopolazione relativa). Cito Karlan poiché è tipico delle scienze borghesi, e non solo delle scienze sociali, il suo modo di approcciare i problemi, cioè da un punto di vista statistico: “le prove” fornite dai numeri sull’efficacia o meno dei progetti di sostegno alla povertà parlano chiaro.

Il problema della povertà diventa in tal modo e fondamentalmente un problema di centratura e di bilanciamento dei programmi d’intervento. Tutto il resto, le leggi di movimento dei processi reali, scompare in una nebulosa di dati e nell’ammucchiata di considerazioni che da tali dati sono tratte. Si pubblicano degli articoli, poi dei libri con tabelle e formulette e infine ci si candida al Nobel.

Venendo sulle generali, per esempio per quanto riguarda la disoccupazione (che essa e il precariato siano tra i fenomeni di maggiore povertà non c’è bisogno di discuterlo), la statistica mette in luce l’entità del fenomeno e i suoi flussi per età e aree geografiche, e magari anche innumerevoli altre cose, ma non mi dice nulla sulle cause che la produco. E anche quando si vanno a cercare le cause, l’approccio non è mai scientifico ma motivato ideologicamente.

Ad ogni modo, in ciò che segue non tratterò segnatamente della disoccupazione nelle sue cause (anche in tal caso c’è tutto in Marx), bensì più in generale accennerò al rapporto tra capitale e lavoro nel suo nesso complessivo di processo di riproduzione dell’operaio stesso.

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Qual è lo scopo del capitale? La produzione di plusvalore e l’aumento della sua estorsione. Certamente non vi è nel dominio reale del capitale, tutto interno al processo di valorizzazione, altro scopo fondamentale che questo, nella duplice esigenza di ridurre incessantemente il tempo di lavoro necessario e di assumere il controllo sui lavoratori (non solo nell’ambito del processo lavorativo vero e proprio!). L’aumento della forza produttiva del lavoro e la riduzione del lavoro necessario ad un minimo è la tendenza necessaria del capitale.

Chiaro, dunque, che per attuare tale scopo il capitale ha la necessità di riprodurre incessantemente le condizioni sociali oggettive di tale processo, anzitutto la separazione tra la proprietà dei mezzi di produzione e il lavoro, ossia tra il capitale e l’operaio (*). Pertanto la riproduzione ed il movimento del plusvalore sono alla base di tutti i rapporti della società capitalistica, delle sue leggi, delle sue tendenze e dei suoi schemi di razionalità (**).

La produzione e riproduzione dell’operaio è il mezzo di produzione più indispensabile al capitalista. Nell’insieme la conservazione e la riproduzione costante della classe operaia rimane condizione costante della riproduzione del capitale.

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Lo sfruttamento non è prerogativa del solo modo di produzione capitalistico, tuttavia solo nel capitalismo lo sfruttamento assume la forma storica e determinata di appropriazione di lavoro non pagato. Anche la separazione tra proprietari e lavoratori, tra “ricchi” e “plebei”, e dunque la separazione della società in classi, è presente in tutte le epoche storiche in cui si sia sviluppata la divisione sociale del lavoro; ma è per l’appunto utopia credere che il capitalismo tenda a superare tale dicotomia, ossia la condizione dell’operaio quale schiavo moderno. Tale condizione è inseparabile dal sistema del salario e dettata dal fatto stesso che il lavoro è parificato alle merci, e che perciò è soggetto, anzitutto, alle leggi che regolano il movimento generale dei prezzi.

Il salario, il prezzo del lavoro, non è una grandezza fissa ma variabile, costituito da due elementi, di cui l’uno è unicamente fisico, l'altro storico o sociale. Il limite minimo dell’elemento fisico è determinato dalla necessità di conservare e rinnovare la classe operaia, e ciò significa che essa deve ricevere gli oggetti d’uso assolutamente necessari per la sua vita e per la sua riproduzione.

Oltre che da questo elemento puramente fisico, indispensabile al mantenimento e riproduzione della classe dei salariati, il prezzo del lavoro è determinato dal tenore di vita tradizionale in ogni paese, dunque nel soddisfacimento di determinati bisogni, che nascono dalle condizioni sociali in cui gli uomini vivono e sono stati educati. Il prezzo del lavoro può aumentare o diminuire (secondo sia il rapporto tra domanda e offerta e altre circostanze come i rapporti di forza tra le classi), e anche annullarsi, in modo che non rimanga che il limite fisico (***).

Il consumo individuale dell’operaio continua dunque ad essere sempre un momento della produzione e della riproduzione del capitale, e, come dice Marx, nulla cambia il fatto che l’operaio compia il proprio consumo individuale per amore di se stesso e non per amore del capitalista. La condizione dell’operaio, nelle sue diverse gradazioni di “povertà” o di relativa “opulenza”, va pertanto intesa e chiarita nell’ambito dei rapporti di riproduzione e sfruttamento capitalistico.

Per quanto ai capitalisti e ai loro ideologi, ossia gli economisti politici e feccia del genere, il sistema sociale borghese possa apparire come la società del bengodi, è necessario considerare che neppure il consumo delle bestie da soma cessa di essere un momento del processo di produzione per il fatto che il bestiame stesso gusta quello che mangia. La condizione dello schiavo, sia antico che moderno, e quella della povertà in ogni epoca, trova il suo motivo in determinati rapporti sociali, anzitutto quelli economici

(*) Non è qui il tema centrale del discorso, tuttavia va tenuto conto, tra l’altro, che il processo di produzione, quale processo di valorizzazione del capitale che si realizza nel processo lavorativo, non ha semplicemente un carattere “tecnico” (la divisione del lavoro nella fabbrica, per dire), bensì corrisponde a precisi interessi materiali di classe ed ha, dunque, anche un carattere politico, di potere.

(**) Delle sue leggi, poiché il capitalista acquista sul mercato la forza-lavoro ed i mezzi di produzione che servono ai suoi scopi “al loro valore”, che, com’è noto, è determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario per produrli. È proprio questo che gli conferisce il diritto, che è poi il suo diritto, di disporre a suo piacimento dell’uso della forza-lavoro nell’ambito delle leggi vigenti.

(***) Nei paesi di antica industrializzazione, dove in origine i salari sono più alti, il fatto che sempre più con lo sviluppo tecnologico aumenti rapidamente la componente fissa del capitale (macchine, materie prime, mezzi di produzione d'ogni genere) rispetto all'altra parte del capitale che viene investita in salari (legge stabilita in forma più o meno precisa già all’epoca di Barton, Ricardo, Sismondi, Richard Jones, Ramsay, Cherbuliez e altri), ha come conseguenza la tendenza generale alla diminuzione del livello medio dei salari, su per giù, al suo limite più basso.




2 commenti:

  1. ed è per quello che firmare un contratto di lavoro è fare un patto con il diavolo: tu pensi di cedere solo qualche ora della tua giornata in cambio del salario ed invece ti stai vendendo l'anima sana sana e pure a prezzi stracciati

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    1. è arrivato perfino un commento a questo post. terrò conto del grande successo di pubblico e di critica.

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