venerdì 24 marzo 2023

Non c’è una via “democratica”


È nei numeri il fatto che l’attuale protesta sociale in Francia è la più imponente dopo il maggio 1968 (che tra l’altro interessò prevalentemente Parigi e non, come ora, l’intero Paese). Repubblica non ha visto i milioni di manifestanti di ieri, ha visto solo l’azione dei blak bloc, mentre il Partito democratico, anche in tal caso, si astiene.

È una pseudo sinistra la “sinistra moderna”, che con la scusa del patto tra gli strati popolari e borghesia democratica difende il bottino dei milionari, si sottomette al capitalismo finanziarizzato, si fa rappresentare da una casta mediatica di narcisisti che propalano l’illusione democratica e progressista. Una sinistra borghese come tante volte s’è vista in Italia, in Francia e ovunque, che non smette di ingannare il popolo usando il “voto utile” contro Le Pen, Meloni, Bolsonaro, Trump, eccetera. Accaparrato il voto e presa la stanza dei bottoni, deride chi l’ha votata attuando una politica più liberale anche di quella della destra.

Una sinistra che è tragicamente ripiegata sull’unico obiettivo di gestire con zelo il capitalismo, fino a partorire essa stessa nuove maschere di questa messinscena (Blair, Macron, Renzi o Calenda non erano forse di sinistra?).

La lotta dei lavoratori francesi, che evidentemente non è solo per le pensioni ma è il prodotto di un malessere generale, non interessa. Anzi, dà fastidio che qualcuno si ribelli all’ordine neoliberista. Succedesse a Hong Kong, a Tbilisi, per non parlare di Mosca, allora sì che ... . Non interessano nemmeno gli scioperi del settore pubblico in Germania e altri scioperi ancora in Europa (*).

Ci sono state proteste record a Marsiglia (245.000), Tolosa (120.000), Bordeaux e Lille (entrambe 100.000) e Lione (50.000), secondo fonti sindacali. Anche città più piccole hanno registrato una partecipazione record, come Brest, Caen e Nizza (40.000), Saint-Etienne (35.000), Rouen (23.000) o Laval (9.600). A Parigi, i sindacati hanno stimato 800.000 persone in diversi raduni.

Anche il numero di questi manifestanti fosse stato solo della metà, di questi tempi è tanta roba. In Italia in tal caso si parlerebbe di “pericolo per l’ordine democratico”. Non perché i fascisti sono al governo, ovvio. Non c’è una via “democratica” nel quadro dello stato capitalista, e non c’è nessun accordo da fare. Prima o poi questo concetto dovrà apparire chiaro e dunque anche le azioni da intraprendere.

Macron, consapevole che la sua imposizione dei tagli avrebbe prodotto un’esplosione di rabbia, ha mobilitato il più grande dispiegamento di polizia dal 1968. Con 5.000 poliziotti antisommossa armati fino ai denti dispiegati nella sola Parigi. Polizia che ha sistematicamente bloccato il movimento dei cortei e caricato, provocando scontri che si sono intensificati nel corso della serata. Ieri sera il ministero dell’Interno ha riferito di 177 arresti.

A Rennes, la polizia ha sparato con cannoni ad acqua e gas lacrimogeni nelle strade e nelle piazze della città. A Rouen una granata stordente della polizia sparata contro un gruppo di insegnanti in sciopero ha strappato parte della mano di una donna.

A Bordeaux, la polizia ha sparato gas lacrimogeni e caricato il corteo all’inizio della manifestazione, e gli scontri si sono diffusi nel centro della città. In serata, un gruppo di manifestanti ha marciato sul municipio e ne ha bruciato solo l’ingresso principale. L’essere timidi non paga.

È inutile e controproducente giocare secondo le regole di un gioco dominato dalla borghesia. È necessario e sempre più urgente un confronto diretto con lo stato capitalista.

(*) Lunedì in Sassonia c’è stato uno sciopero, martedì in Baviera e nella Renania settentrionale-Vestfalia. Altre tre manifestazioni a Gelsenkirchen, Mönchengladbach e Colonia. Mercoledì altri scioperi di nel Baden-Württemberg, e oggi è prevista una grande manifestazione a Lipsia. Mercoledì a Francoforte hanno preso parte diverse migliaia di lavoratori dei servizi pubblici della città, asili nido, case di cura AWO, Mainova (fornitore di elettricità e gas) e l'azienda di trasporti municipale. La città appariva molto tranquilla, poiché non circolavano né tram né metropolitane e gli uffici comunali erano chiusi.

Amburgo, il porto più grande della Germania, è rimasto chiuso alle grandi navi mercoledì mattina, e i piloti restano in sciopero fino a oggi, quando anche i lavoratori del Canale di Kiel (NOK) alle chiuse di Kiel e Brunsbüttel scioperano per la prima volta. Il 27 prossimo si fermano autisti e i ferrovieri EVG, anch’essi coinvolti in una controversia salariale.

giovedì 23 marzo 2023

La trappola di Tucidide

 

Il presidente cinese Xi Jinping ha concluso la sua visita di due giorni a Mosca e gli incontri con il presidente russo Vladimir Putin. I due leader hanno dichiarato che la loro cooperazione ha “raggiunto il livello più alto della storia” e, in opposizione agli Stati Uniti, dichiararono la loro determinazione a “salvaguardare il sistema internazionale” basato sulle Nazioni Unite. Chi vuol capire, capisca.

Il vertice sino-russo di Mosca segna la fine della strategia geopolitica americana sperimentata dal presidente degli Stati Uniti Richard Nixon e dal suo consigliere per la sicurezza nazionale Henry Kissinger, che progettarono un riavvicinamento con la Cina e un’alleanza de facto contro l’Unione Sovietica. L’accordo fu siglato dalla visita di Nixon a Pechino e dall’incontro con Mao Zedong nel febbraio 1972.

Oggi Russia e Cina mantengono un grado di indipendenza dall’ordine mondiale dominato dagli Stati Uniti, che però è intollerabile per Washington. Questo è la causa di tutto, ed è particolarmente vero con la Cina, che da potenza regionale è diventata, grazie al massiccio afflusso di investimenti e tecnologia da parte di società americane (il “benevolent power” americano) e internazionali desiderose di ottenere super profitti dalla manodopera cinese a basso costo, un leader in grado di competere con la maggiore superpotenza del dopo Guerra Fredda.

Come sempre più spesso accade, le diatribe appassionate sui media e sui social ruotano intorno alle percezioni più che alla realtà di questa rivalità, dove prevale l’ideologia a dispetto di affermazioni mai comprovate. In questi ambiti, forse non a caso, si è ritornati alle posizioni della vecchia guerra fredda (intravedo una certa nostalgia). In realtà, questa rivalità non contrappone ideologie molto distanti tra loro, come ai vecchi tempi tra Mosca e Washington, poiché prevale in entrambi i Paesi il capitalismo, e, specie la Cina, è lontana dai meccanismi del vecchio bipolarismo perché non vi ha interesse.

Il duello Washington-Pechino, la “nuova guerra fredda”, è una rivalità globale, ci riguarda tutti, poiché ci trascina in un bipolarismo tanto ingiustificato quanto pericoloso. Ingiustificato perché non è, a differenza della vecchia guerra fredda, ideologico e sistemico; pericoloso perché porta non solo a maggiori incertezze ma a un conflitto aperto che ormai sembra difficile scongiurare (siamo ormai prigionieri della “trappola di Tucidide”).

Le tecnologie d’avanguardia sono diventate il terreno di gioco di questa rivalità, e gli sviluppi in tale settore sono così rapidi che l’equilibrio di potere non è mai fisso. Entrambi i contendenti cercano di anticipare e trarre un proprio vantaggio significativo, ampliando il divario rispetto alla concorrenza, europea e giapponese in particolare. Ma a noi europei che importa, abbiamo una grande storia alle spalle che ci sorregge.

Pechino si sta dando i mezzi commisurati alle proprie ambizioni, sia affidandosi alla forza d’urto della sua industria di punta – Huawei e Tencent in particolare – sia puntando sul monopolio dei metalli rari indispensabili per la componentistica dei computer. La Cina è così passata, in pochi anni, da fabbrica globale a centro di sviluppo di nuove tecnologie in grado di rivaleggiare con la Silicon Valley.

Di fronte a questo aumento del potere tecnologico cinese, dapprima gli stati occidentali avanzavano in (dis)ordine sparso. Poi da un po’ d’anni a questa parte a Washington ci si è svegliati. Lo testimoniano le misure adottate in risposta al 5G e ad Huawei, nonché la pressione esercitata su TikTok dalla Casa Bianca. Più che una questione tecnologica, ciò è diventato inevitabilmente un affare politico, con accuse al governo cinese di aver orchestrato una massiccia raccolta di dati attraverso questa innovazione.

Ciò che penso ormai sia chiaro è il fatto che la più grande trasformazione della storia non riguarda solo il risultato di innovazioni capaci di trasformare le società, ma le scelte strategiche delle grandi potenze per consentire loro di creare un vantaggio decisivo sulla concorrenza e dominare il mondo. Pertanto la competizione è aperta.

Possiamo scegliere da che parte stare, naturalmente e in ogni caso molto in subordine. C’è un fatto però che non va sottaciuto, e cioè che le nostre scelte collettive possono ancora influenzare gli avvenimenti. Vale a dire: vogliamo che questo confronto-scontro storico, di cui la guerra per procura in Ucraina (che sta dilaniando economicamente l’UE) è solo un passaggio, trovi una qualche composizione sul piano delle intese pacifiche (sfruttando magari i limiti del potere cinese e le battute d’arresto del potere americano, anche alla luce delle crisi finanziarie), oppure accettiamo il processo intrapreso che sta portando il mondo intero dritto a un conflitto armato in cui l’impiego delle armi nucleari è una possibilità tutt’altro che remota? 

Come scegliere tra peste e colera


Il governo degli Stati Uniti, temendo da parte di Pechino l’utilizzo a scopo di propaganda dei dati archiviati su server situati in Cina, a fine febbraio ha vietato agli agenti federali di utilizzare il social network TikTok sul posto di lavoro.

Ora si preparano, per lo stesso motivo, a vietare l’uso di TikTok sul proprio territorio. Lo fanno perché di queste pratiche sono maestri insuperati: da decenni le multinazionali Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft (GAFAM) e lo spionaggio statunitense hanno raccolto a strascico dati personali in tutto il mondo.

Certo, fa ridere sentire i funzionari cinesi di TikTok, grandi paladini della libertà di espressione, deplorare la “censura” che sta cadendo su centinaia di milioni di utenti americani. Non meno comico, però, lo spettacolo al di là dell’Atlantico, nel paradiso di GAFAM, colossi digitali che da anni sgraffignano impuniti le nostre informazioni personali per scopi economici, geopolitici e chissà che altro.

È noto che gli Stati Uniti sono primatisti mondiali d’ipocrisia, e anche in questo campo sono i primi a ignorare apertamente regole basilari in tema di gestione e protezione dei dati. Per anni sono stati impegnati in una battaglia legale con l’Unione Europea, per meglio dire con la Corte di giustizia europea, che sta cercando faticosamente di imporre i requisiti sanciti dal suo Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR). Entrato in vigore nel 2018, questo testo mira a proteggere i cittadini europei dagli avvoltoi che scavano in profondità per l’oro immateriale rappresentato dalle nostre semplici identità individuali.

Qualunque sia l’obiettivo e il paese interessato, il recupero dei dati digitali risponde agli stessi principi guidati dal famoso adagio “se è gratis, il prodotto sei tu”. Ieri sera, cercando un libro dato per esaurito, ho dovuto, obtorto collo, “consentire” per accedere a delle banali informazioni di vendita di quel libro sul mercato dell’usato. Altro esempio: c’è un sito toscano di vendita di libri che da anni segue pedissequamente non solo i miei acquisti di libri in rete, ma è al corrente di ogni nuovo tema delle mie ricerche su internet. E sto parlando di libri e non di aspetti più delicati della vita personale. Se non è violazione della privacy questa, che cos’altro lo è?

Dietro l’utilizzo gratuito degli strumenti offerti da tutte queste piattaforme online c’è il nostro consenso più o meno informato (e più o meno obbligato) a cedere informazioni personali – nome, sesso, età, numero di telefono, indirizzo IP, livello di istruzione – e dati di utilizzo – cronologia di navigazione, posizione in tempo reale, contenuto di e-mail o sms, ecc. – che possono effettivamente essere convertiti in denaro o altro. Questi dati possono essere raccolti direttamente dalle piattaforme per “migliorare l’esperienza sul cliente” e per il targeting pubblicitario online.

Apparsi più di recente, i data broker sono una nuova specie parassitaria responsabile della raccolta e del raggruppamento delle nostre informazioni personali in categorie di consumatori, che poi rivendono ad altre società interessate a questo tipo di profilazione particolarmente redditizio. I broker acquistano i dati direttamente dalle piattaforme online o raccolgono da internet, spesso subdolamente, informazioni che vengono volontariamente pubblicate sui social network o su qualsiasi altra fonte aperta. Modalità di raccolta dati che spesso flirtano con l’illegalità, ad esempio quando riguardano informazioni sensibili, come precedenti penali, reddito, salute, ecc., o quando vengono condivise senza il consenso esplicito degli interessati.

Penso si ricordi che nel 2018 il quotidiano britannico The Guardian rivelò la trasmissione da parte di Facebook dei dati di 87 milioni di account, all’insaputa dei loro proprietari, al broker britannico Cambridge Analytica. Tra l’altro, nel 2016, finanziata da un caro amico di Donald Trump, la società aveva realizzato tecniche di profiling politico al servizio del candidato alle presidenziali Usa. Cambridge Analytica da allora ha chiuso, e Facebook è stato multato per cinque miliardi di dollari, ma le cose sono cambiate?

La vicenda ha lasciato il segno. Secondo un sondaggio condotto dal Washington Post nel dicembre 2021, il 72% degli statunitensi non si fida di Facebook per la gestione delle proprie informazioni personali e dei dati di navigazione, ma ciò non ha in alcun modo intaccato questo settore in forte espansione. Il suo mercato è colossale, stimato in oltre 250 miliardi di dollari nel 2021, e continua a crescere, con una previsione di 365 miliardi di dollari entro il 2029, secondo un rapporto del Global Intelligent Traffic Management System Market.

Se l’intermediazione di dati sia lecita o meno dipende naturalmente dal quadro legislativo del paese in cui operano queste società. I cittadini europei sarebbero teoricamente ben protetti dalle pratiche abusive grazie al GDPR. In concreto, qualsiasi dato raccolto da una società deve rispondere a uno scopo preciso – la raccolta di un indirizzo mail sarà utilizzato, ad esempio, espressamente per attività di recapito o pubblicitarie – ed essere oggetto di consenso informato da parte dell’utente, al quale viene chiesto in particolare di accettare o meno i famosi cookies (se installi adblockplus e simili, ad esempio, non entri più da nessuna parte).

Teoricamente, ognuno ha il diritto di sapere dove, quando e come vengono utilizzati i propri dati, e di opporsi a posteriori. I dati sensibili devono essere soggetti a una maggiore protezione della crittografia ed essere eliminati il prima possibile. Infine, è possibile il trasferimento dei dati su server ubicati al di fuori dell’Unione Europea, a condizione che sia assicurato un livello di protezione sufficiente ed adeguato. Tuttavia, come detto a riguardo degli Usa, tale livello di protezione e il rispetto delle stesse regole non esiste.

Il 16 luglio 2020, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha pronunciato un’importante sentenza, nota come Schrems II, che invalida il regime di trasferimento dei dati tra l’Unione europea e gli Stati Uniti. La Corte ha ritenuto che il quadro normativo americano non tuteli da “ingerenze nei diritti fondamentali delle persone i cui dati sono trasferiti”. La Corte ha concluso in particolare che la raccolta di dati da parte dei servizi d’intelligence americani è “sproporzionata e che i rimedi sono insufficienti”.

In termini assoluti, gli Stati Uniti stanno quindi per mettere in atto lo stesso principio di divieto di trasferimento dei dati alla Cina imposto dall’Unione Europea al loro posto. Risultato: sono passati due anni da quando migliaia di aziende americane – tra cui le multinazionali GAFAM – ed europee, per le quali lo scambio di dati è vitale, procedono al di fuori di ogni quadro normativo, quindi nell’illegalità più totale. Quanto alle pronunce della Corte di giustizia dell’Unione europea, per quanto riguarda il loro rispetto da parte degli Usa, sono scritte sulla sabbia.

Scegliere tra GAFAM americane e TikTok cinese è come scegliere tra peste e colera. 

mercoledì 22 marzo 2023

Mai in Italia

 

La Fed ha alzato i tassi dello 0,25%, o 25 punti, come avevo (facilmente) previsto giorni addietro. Intanto la bilancia commerciale italiana è andata in rosso nel 2022, causa sanzioni alla Russia. Crisi idrica, rincaro bollette e investimenti infrastrutturali zero. Che altro? Il Pd in parlamento si astiene. È un partito di astenuti. Per anni ha ridotto le tasse alle imprese e ai redditi più alti. Ora lo rinfaccia ai fascisti. Dal 2013 è stata abolita l’Imu sulla prima casa, molti miliardi in meno di entrate. Personalmente posso anche ringraziare, ma soprattutto ringraziano i miei vicini, una farmacista, un orefice e un “imprenditore” con varie auto tra cui un carrarmato che quando passa occupa tre quarti della carreggiata. Io con la mia utilitaria devo accostare, lui passa, sorride e manda bacini.

Troppa gente, compresa quella che incontro al supermercato o nelle associazioni, ha un rapporto sempre più personale con la realtà. È facile mandare in fiamme un mondo abitato da ebeti: “tutto sulla fidanzata di Elly Schlein”. Hanno fatto un lavoro coscienzioso, hanno ucciso la politica e ora abbiamo solo i suoi rifiuti. Se in politica non si fa niente, prima o poi succede qualcosa. Mai in un paese come l’Italia.

Sto ultimando il libro di Guido Leto, OVRA, Cappelli editore, 1952. Scrivendo della caduta del fascismo, l’ex capo dell’OVRA dice tra l’altro: «La percezione dell’attimo favorevole per l’azione risolutiva innegabilmente fu giusta e l’evento che, in altre circostanze e con attori di altra tempra, avrebbe potuto determinare gravissime reazioni e sarebbe stato d’incerto esito, si svolse quasi dappertutto fra la generale indifferenza e con qualche manifestazione, financo, di sapore carnevalesco» (p. 253).

Gli eletti

 

Quelli di destra e di sinistra, anche se non li abbiamo votati (per più motivi o anche solo per linsostenibile schifo) sono lì a rappresentarci. Forse non ce ne rendiamo conto, ma quello che sono, quello che fanno e non fanno, quello che dicono, è sempre conseguenza dello stato della società che li ha designati.

Sono “legittimi”? Diffidare di questa parola: Hitler, per fare il solito caso estremo, è salito al potere “legittimamente”: la società tedesca aveva, per la maggior parte, preparato il suo ingresso sulla scena. L’artista fallito non è stato un incidente della storia; ne era il prodotto. Non solo la cecità e stupidità di Versailles, non solo la crisi economica dei Trenta, che pure vi ebbero tanta parte, dal lato ideologico e da quello pratico.

Gli ectoplasmi del Pd e dintorni, i tanti fascisti variamente rozzi e stupidi, perfino Renzi, non sono lì per caso. Basta sentirli aprire bocca: sono i nostri vizi, egoismi, l’ignoranza (tanta), le nostre paure paranoidi, le speranze, le illusioni e le delusioni di chi li ha votati. La malafede di chi ha interesse a farli sostenere sui media.

Parliamo di molte cose, troppe, ma non tutte, sicuramente non di quelle realmente importanti. Per esempio, non si parla più del lavoro, salvo e distrattamente dei numeri degli occupati e dei disoccupati. Al massimo si arriva a distinguerlo in due grandi categorie: quello “precario” e quello a tempo indeterminato, che passa come un privilegio. A questo s’è arrivati.

Cos’è un privilegio? Tante definizioni quante sono le categorie sociali, economiche, sessuali, culturali, familiari, quanti sono gli individui. In una società in crisi, queste definizioni si moltiplicano. Tutti tendono a vedere, o fantasticare, i privilegi degli altri.

Privilegiato è l’essere umano che fa il lavoro che si è scelto, che gli permette d’imparare e capire ciò che lo circonda, di farlo con un compenso che gli permetta di vivere decorosamente e con dignità coloro che ama e che dipendono da lui. Sarebbe dunque questo nel XXI secolo un privilegio? Abbastanza raro, bisogna ammetterlo.

Per contro, in generale manca sempre qualcosa, se non quasi tutto. Molti hanno un lavoro che in realtà non hanno scelto. Questo lavoro è spesso noioso, doloroso, ripetitivo, angosciante, deprimente, estenuante, incompreso, umiliante, frustrante, a volte pericoloso, e persino vergognoso. Porta poco o niente a chi lo fa, se non lo stretto necessario per vivere (e anche in tal caso, non sempre). E succede che li svilisce.

Ecco, invece di riempire le nostre giornate con la fiera di parole tipo “maternità surrogata”, “ponte sullo stretto”, “nazione”, parliamo di cose concrete, per esempio di contratti e dell’organizzazione giuridica dei rapporti di lavoro, la maschera di un rapporto egualitario tra soggetti (il diritto del capitale a sfruttare il lavoro), che però dal punto di vista economico è un rapporto ineguale tra classi sociali.

Ci viene spiegato che, a differenza dei regimi totalitari, la libertà e l’uguaglianza costituiscono l’essenza dei nostri sistemi democratici. Chi oserebbe mettere in discussione la bontà della democrazia elettiva e l’innocenza del diritto umanista nelle nostre società egualitarie? Certo, la libertà di criticare l’eccessivo e scandaloso arricchimento di una minoranza, ma l’evidenza dello sfruttamento, anche solo dell’ordinario stato dello sfruttamento, non è all’ordine del giorno della discussione.

E se non viene messo in evidenza questo rapporto sociale reale, quello dell’ordinario sfruttamento, che cosa mai resta della “sinistra”? I segretari del Pd che si succedono hanno paura di perdere i voti dei Parioli, preferiscono essere un partito senza popolo piuttosto che tradire la borghesia ricca e benestante di cui sono i reali referenti (è diventata una identificazione antropologica). Tanto che quel popolo orfano e negletto, non sapendo più a che santo votarsi, vota fascista.

Il re è nudo, ma non importa, dal cilindro spunta una nuova maschera per nuove illusioni. Qualche slogan “sociale” e poi si ripiega sui diritti civili e umani, cui l’ideologia giuridica darà un supplemento d’anima, diventando il terreno di scontro con la reazione neofascista e cibo per gli intrattenitori televisivi. Insomma, spettacolo. Il fantasma dei “diritti” che nasconde il movimento delle cose concrete, il fantasma che agisce alle spalle degli individui reali.

Dove abbiamo mai visto una società del genere, questa enfasi feticizzata e spettacolarizzata delle relazioni sociali? Comprendo bene la silenziosa rassegnazione di molti di noi, che non vogliono stare al gioco, ma temo che il silenzio abbia infine i tratti di un autoinganno.