domenica 6 aprile 2025

Riciccia Marx

 

Decerebration

Contrariamente al senso comune, la storia non si ripete, rigurgita. Il terzo conflitto mondiale è iniziato con una guerra commerciale totale, simile e forse persino più dannosa di quella degli anni 1930, che ebbe un ruolo cruciale nell’inasprire la Grande Depressione. Il campo di gioco al momento è quello dei dazi.

Il livello dei “dazi reciproci” è stato determinato con un calcolo degno di un alunno di quarta elementare: il deficit commerciale degli USA con il paese interessato è stato diviso per il totale delle sue esportazioni per arrivare a una percentuale che è stata poi dimezzata per arrivare al numero della “tariffa reciproca”.

Ciò ha comportato enormi aumenti tariffari per numerosi paesi del Sud-Est asiatico, che sono diventati importanti centri manifatturieri che riforniscono il mercato americano. Il più colpito è il Vietnam, per il quale la “tariffa reciproca” è del 46 per cento. Il dazio contro Taiwan è del 32, con la Thailandia si attesta al 37.

Messa peggio di tutti è la Cina, poiché i dazi sono come le radiazioni ionizzanti, si sommano. L’ultimo è del 34 per cento, ma questa percentuale va appunto a sommarsi con le precedenti, per cui siamo ben sopra il 50 per cento.

A ciò si deve aggiungere che il sistema finanziario internazionale è di nuovo sull’orlo del collasso. Non sarà il riarmo a salvarlo e nemmeno il prolungamento del conflitto ucraino. Siamo di nuovo alle prese con la contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico, che non riguarda la circolazione, ma l’estorsione di plusvalore.

Ciò che gli ebeti apologeti dell’economia capitalistica (di destra e di sinistra son tutti la stessa robaccia) non possono ammettere, riguarda il fatto che quella in atto è fondamentalmente una lotta per il plusvalore. Per dirla con Lenin: “mettono innanzi particolarità secondarie distraendo l’attenzione dall’essenziale”. Lazzaroni e banditi che “contrappongono all’imperialismo la libera concorrenza e la democrazia”.

Che Washington punti al ritorno delle attività manifatturiere negli Stati Uniti, riguarda per l’appunto la tosatura del gregge produttivo. Lotta per il plusvalore che assume poi le forme, anche ideologiche, proprie della crisi finanziaria, del debito, dei dazi, eccetera. Gira e rigira, inevitabilmente riciccia Marx.

11 commenti:

  1. Scusa, faccio un ragionamento terra terra.
    I costi di produzione per un'impresa americana che "ritorna" la produzione in USA dovrebbero essere più alti, per dire sugli stipendi, i prezzi dei prodotti dovrebbero salire per i consumatori americani, per cui nel "breve" periodo magari magicamente l'azienda americana che aveva delocalizzato in Cina o altrove torna la produzione sul suolo americano ma poi per il discorso della caduta del saggio di profitto sarebbe costretta di nuovo a delocalizzare, a meno che non forzi i suoi lavoratori a guadagnare di meno o a spremere con una produttività aumentata con l'aiuto della tecnologia più plusvalore dai lavoratori. Ma con maggiore tecnologia avrebbe nel tempo bisogno di meno lavoratori per rimanere nei margini di profitto e comunque non sarebbe scongiurata una nuova delocalizzazione, sempre per il profitto.
    Penso che lo scopo principale di queste politiche tariffarie
    sia la delocalizzazione di alcune produzioni di industrie europee verso gli USA.
    Ammettendo che una determinata industria europea si sposti in USA e riesca a vendere i prodotti allo stesso livello in cui li vendeva prima con le esportazioni, il plusvalore andrebbe al capitalista europeo, per cui apparentemente questa lotta al plusvalore alla fine farebbe guadagnare il capitalista europeo. Gli USA forse guadagnerebbero in posti di lavoro in più per americani, ma questi sono tutti "calcoli" veramente fatti alla buona.
    Mi sembra che tutti facciano i conti senza l'oste come li ha fatti lo staff di Trump, la realtà è più complicata rispetto ai ragionamenti che fanno gli economisti o noi.
    Dove mi sbaglio?
    Saluti,
    Carlo.

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    1. Caro Carlo, il capitalismo, a livello di aggregati, non è più quello dell'ottocento ne' quello del secolo scorso. Produrre negli Usa significa acquistare materie prime e ausiliarie, manodopera, costruire impianti, pagare imposte , vendere e reinvestire negli Usa...

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  2. E la questione resta sempre: e noi intanto che facciamo?

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    1. Noi magari intanto usiamo un nome nei nostri commenti, poi si vede

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    2. Mio commento, scusa.
      Pietro

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    3. Grazie, Pietro.
      Che cosa vuoi fare se la preoccupazione maggiore per tanta gente è la paura di non avere denaro per la pizza?

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  3. https://www.officinadeisaperi.it/materiali/barbero-armi-e-sindrome-dellinvasione-come-nel-14-prima-della-guerra-da-il-fatto-e-antidiplomatico/

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  4. In effetti, la modalità di computo delle "tariffe oggi addebitate agli Stati Uniti" lascia stupefatti: si tratta della percentuale di deficit sul totale dell'import americano. Con piroetta logica indegna di uno studente di quarta elementare, questa percentuale viene dimezzata e attribuita a ciascuno dei due contendenti come "tariffa reciproca". Non esiste alcuna garanzia di riequilibrio come effetto di queste tariffe reciproche. Inoltre, il deficit commerciale non è una tariffa. Io sono un po' preoccupato, perché quello è l'uomo più potente del mondo.

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    1. Non decide da solo, ma è pericolo non da poco. Ne vedremo delle altre.

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  5. io lascerei decisamente perdere gli improbabili calcoli, le formulette... Mentre mi sembra più interessante vengano definiti “reciproci”. Quindi se togliamo iva fine dazi, il concetto. Rozzo.

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