Il quadro generale degli eventi è chiaro. Trump aveva deriso i mercati in calo e sostenuto che quello era un “ottimo momento per investire”. Neanche fosse un trader. Solo poche ore dopo, Trump si è riunito con due consiglieri miliardari, il Segretario al Tesoro Scott Bessent e il Segretario al Commercio Howard Lutnick, che hanno espresso la preoccupazione di Wall Street (dirigenti bancari come Jamie Dimon di JPMorgan) sull’imminente congelamento del mercato obbligazionario simile a quello avvenuto a marzo 2020. Mentre insistevano, Trump ha rilasciato una dichiarazione sulla sua piattaforma social Truth, annunciando una “pausa” di 90 giorni nella sua guerra tariffaria, fatta eccezione per la Cina.
Pertanto, la ritirata di Trump non faceva parte di una “grande strategia negoziale” come proclamato da qualche sciocchino, ma il fattore chiave è stato sicuramente il crollo repentino dei mercati, soprattutto del potente mercato obbligazionario del governo statunitense (circa un terzo del debito statunitense è di proprietà straniera, con Giappone e Cina come i due maggiori detentori).
Il mercato obbligazionario statunitense ha evitato il disastro, ma ci è andato vicino. Una regola affidabile negli investimenti è che, quando scoppia una crisi, i titoli del Tesoro (29 trilioni di dollari) fungono da valvola di sicurezza offrendo una via d’uscita senza particolari rischi, quindi i prezzi dei titoli di Stato salgono. Dopo i dazi di Trump, questa funzione è venuta meno e i titoli sono crollati (qui, prima di altri, ho spiegato perché).
Significa, tra l’altro, che lo status di riserva del dollaro non è un dato immutabile. Infatti, la crescente sfiducia nel dollaro si riflette nell’aumento del prezzo dell’oro.
Questi processi, che sfuggono al controllo delle autorità monetarie e nel complesso al controllo delle classi dominanti, minacciano di spazzare via vaste strutture di ricchezza basate sul dollaro e ingenti montagne di credito. La crisi storica del sistema capitalista non è una prospettiva per il futuro, come del resto scrivo nel mio piccolo da anni, ma è già in atto e non esiste soluzione al suo interno.
Dopo l’euforia di mercoledì, quando i prezzi delle azioni sono saliti alle stelle in seguito all’annuncio di una pausa di 90 giorni nell’imposizione di dazi reciproci, è giunto il calo a Wall Street, ripreso ieri dopo che la Casa Bianca ha chiarito che i dazi sulla Cina erano del 145 per cento e non del 125 come precedentemente indicato.
Sul finire della seduta borsistica di ieri, le dichiarazioni tranquillizzanti della presidente della Fed di Boston Susan Collins, certamente concordate con Jerome Powell, ossia che la banca centrale statunitense “sarebbe assolutamente pronta” a usare il suo potere finanziario per stabilizzare il mercato, qualora fosse necessario, hanno portato gli indici appena in positivo.
Era improbabile che dicesse altro, perché anche il minimo accenno al fatto che la Fed stesse riscontrando problemi crescenti avrebbe quasi certamente scatenato il panico, tale è la fragilità del sistema finanziario.
In pratica alla Cina è stato imposto un embargo, ovvero un blocco pressoché totale delle sue merci. Le vaste implicazioni di una guerra economica su vasta scala tra la prima e la seconda economia mondiale hanno iniziato a farsi sentire. Che cosa succederà ancora? È un po’ presto per dirlo, tuttavia in un mercato globalizzato ciò che succede tra due superpotenze economiche non esenta da conseguenze anche le altre economie.
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