Omnes feriunt, ultima necat. Questa locuzione latina adorna la meridiana del convento di São Francisco, che da quattro secoli e mezzo indica le ore nella città di Bahia. Ci ricorda l’indiscutibile realtà che segna tutta la nostra vita. Non per nulla la coscienza della propria morte è una delle fondamentali conquiste costitutive dell’essere umano.
Per prevenire eventuali obiezioni, do atto che la morte è riconosciuta anche da altri primati e animali (che sono per esempio capaci di “fare il morto” per ingannare il nemico), tuttavia nell’uomo vi è una coscienza più complessa di essa, un’ansia che diventa problema vivo come coscienza della “mortalità”, tanto che elaboriamo i riti relativi, compresi quelli inerenti la speranza e la consolazione, terreno proficuo delle filosofie e sugo nel quale le religioni inzuppano il pane.
In questi giorni siamo presi chi più e chi meno dal pensiero della morte. Ovviamente si moriva anche prima, ma questa palpabile angoscia, questi pensieri tristi, restavano sullo sfondo e comunque non venivano evocati quotidianamente dalla contabilità dei bollettini ufficiali. Anzi, l’evento luttuoso era vissuto in disparte, privatissimo, come colpito da interdizione. Del resto anche oggi i bollettini preferiscono parlare di “decessi”.
È impossibile sottrarsi del tutto alle notizie che ci documentano la trasformazione degli ospedali e degli ospizi in luoghi dove si muore in massa, e così per la visione di bare e ammalati gravi per i quali c’è poco da fare. Prendiamo in tal modo atto concretamente che la morte è sempre lì, ad un passo, solo che ora approfitta del clamore e ci alita sul collo.
Non eravamo più abituati, dai grandi conflitti bellici del Novecento, alle morti di massa e ai grandi cimiteri sotto la luna, per dirla con Bernanos, salvo che per eventi localmente circoscritti, quali i terremoti. Eppure basta affacciarsi sul mondo per avere contezza di come ogni anno muoiono nel silenzio quasi generale circa mezzo milione di persone per malaria; di come la diarrea, seconda causa di morte dopo la polmonite tra i bambini sotto i 5 anni, ne uccide 1,5 milioni, più di 4.000 il giorno. Si tratta di stime ben lontane dalla nostra situazione di europei, e in definitiva non facciamo né troppa né poca attenzione a queste morti, non c'è un Borrelli per loro.
Dire che Borrelli non gli arrecherebbe grandi benefici è battuta fin troppo facile. In realtà, anche la morte dei nostri connazionali in quest’ultimo mese non ha provocato, a mio parere, particolari moti di compassione. Ha prevalso l’egoismo, e non solo nella forma naturale e irresistibile che prende il soldato in trincea quando vede che il cecchino nemico ha colpito non lui ma il suo commilitone a pochi centimetri; c’è anche il silenzioso compiacimento per il liberarsi di altri posti in terapia intensiva (non si sa mai) oppure, più semplicemente, il calcolo di tornaconto politico per il proprio partito. Volendo mantenersi razionali, non si può che domandarsi: e la Svezia? Ci hanno provato, in Italia, a dare risposte saputelle, ma il virus è dispettoso, e non fa morire abbastanza svedesi. E non parliamo di quello che succede, o non succede, oltre il confine nord della Lombardia.
RispondiEliminaSi viene a sapere oggi che un piano per le pandemie, anche di SARS, era stato predisposto nel 2018 (oltre 70 pagine più allegati). Da ciò che si è potuto capire di quelle misure di predisposizione nulla è stato concretamente realizzato nel frattempo, e nemmeno dopo la dichiarazione di calamità nazionale del 30 gennaio e fino al 21 febbraio 2020.
EliminaÈ stata presentata una interrogazione parlamentare. Ho molta curiosità di sentire quale sarà la risposta del ministero della salute, ma già l'immagino.