giovedì 16 aprile 2020

Il problema di come uccidere un microbo


Un tempo era possibile scoprire le sorgenti di un grande fiume, oppure un’isola e perfino dei continenti, come successe a Cristoforo Colombo e poi a Willem Janszoon. Per quanto riguarda Colombo si trattò del più clamoroso caso di serendipità della storia, del quale forse non si rese conto.

Un altro famoso caso di serendipità fu quello della scoperta, nel 1928, del primo antibiotico, battezzato poi penicillina. Nel caso di Fleming, questi aveva intuito il potenziale terapeutico del fenomeno al quale aveva assistito nel suo laboratorio.

Non tutto avviene per caso, ovviamente. Non sono dovuti al caso la tavola degli elementi, per esempio, la scoperta della struttura del nucleo benzenico, la sintesi dell’urea, la vaccinazione pasteuriana, la messa a punto dei primi farmaci contro la sifilide, e poi ciò che ha portato al chiarimento del codice genetico, e così via. Tuttavia il caso gioca un grande ruolo nelle vicende umane e nondimeno nelle scoperte scientifiche

Il problema di come uccidere un microbo in un organismo vivente, Pasteur se l’era posto fin dall’inizio nella sua opera Des Générations spontanées (1864), e così pure Joseph Lister (il quale introdusse il metodo antisettico, a base di fenolo), ansiosi entrambi di disporre di un trattamento per le piaghe infette.


Furono necessari molti anni prima di trovare la soluzione al problema, e non poche furono le resistenze e le difficoltà che dovettero superare. La minima infezione, provocata dal più banale dei motivi, continuò essere causa di morte anche per gli individui più sani e robusti. Senza dire delle complicazioni broncopolmonari provocate dall’influenza. La lotta contro le infezioni batteriche si era regolarmente risolta in sconfitte scoraggianti e spesso drammatiche. La medicina e l’ambito della ricerca dell’epoca vivevano in una impasse frustrante.  

Prima della penicillina a scopo terapeutico, vennero i lavori sui sulfamidici, con i quali per esempio fu possibile trattare la setticemia, la meningite cerebro-spinale e la polmonite. L’impiego dei sulfamidici, cioè delle terapie antinfettive, dal punto di vista demografico si tradurrà in una caduta spettacolare della mortalità perinatale e infantile, più in generale nel prolungamento delle speranze di vita alla nascita.

Jean Bernard, professore di ematologia e a suo tempo direttore dell’Istituto di leucemia dell’Università di Parigi, scrisse a tale riguardo: “Prima del 1930, la medicina aiutava, forniva palliativi, lasciava fare alla natura. Essa non sapeva modificare il corso delle malattie: se erano leggere guarivano, se erano gravi uccidevano”.

Come si pervenne alla scoperta dei sulfamidici? Nel 1922, due eminenti ricercatori del Rockfeller lnstitute di New York prepararono un composto sulfamidico del chinino, ma non gli riconobbero alcuna azione battericida, perdendo così l’occasione della scoperta.

Alla fine del 1932, in una grande industria tedesca, l’IG Farben di Wuppertal, nel laboratorio diretto da Gerhard Domagk, medico e biochimico, accadde un fatto sorprendente: alcuni topi cui erano state inoculate 100 dosi letali di una cultura microbica virulenta e che erano stati trattati con un prodotto colorante di sintesi, sopravvissero all’infezione, mentre tutti gli animali di controllo morirono.

Mancava però la spiegazione di questo fenomeno. Tre anni dopo, un’equipe di ricercatori dell’Istituto Pasteur di Parigi fornì la spiegazione del funzionamento del prodotto tedesco, chiamato Prontosil, subito largamente impiegato in clinica: non era il colorante a esercitare l’azione antimicrobica, ma la semplice molecola di sulfamide derivante dalla scissione del composto all’interno dell’organismo.

I due decenni tra il 1930 e il 1950 furono chiamati l’età dell’oro della terapeutica, poiché i risultati raggiunti furono un che di miracoloso. In meno di 10 anni più di 5.000 nuovi composti sulfamidici uscirono dalle mani dei chimici e furono oggetto di uno studio batteriologico. Questo imponente numero di sintesi, scriverà il Nobel Daniel Bovet, permetterà inoltre di scoprire nuove serie di agenti terapeutici tra cui gli antidiabetici, i diuretici di sintesi, e, soprattutto, gli antitubercolari.

Dal punto di vista teorico, una delle prime questioni da risolvere fu quella di sapere attraverso quale meccanismo agisse nell’organismo la nuova classe di farmaci. La risposta fu fornita da due biochimici inglesi, Paul Fildes e Donald D. Woods. Essi osservarono che la struttura chimica del sulfamide è molto vicina a quella di un fattore di crescita indispensabile alla maggior parte dei batteri, e furono così in grado di dimostrare che, una volta introdotto nell’organismo infetto, il sulfamide inganna in qualche modo i microbi che lo assorbono al posto della vitamina, provocando la loro distruzione.

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