domenica 15 dicembre 2019

Ci vuole altro che uno scossone


In questi giorni leggo di giornalisti freelance che “amano tanto il loro lavoro” ma che sono destinati ad essere eterni precari soggetti a vessazioni di ogni genere, anzitutto economiche. Scrive Sara Mauri: “Mancando la gratificazione economica, ci deve essere come minimo quella personale. Ma se anche quella manca?”

Qui il primo errore: il lavoro è lavoro e va pagato. La gratificazione personale è altra cosa.


La colpa è di un sistema malato? Cioè? Una giornalista nella sua denuncia non dovrebbe rimanere nel vago, anzi nel non detto.

Scrive ancora Sara: “Le cose devono cambiare, così non si va avanti. Spero di contribuire a tirare giù quel muro di cemento, dando un altro scossone all’impianto strutturale e viziato di questo mestiere che maledettamente amo”.

Purtroppo non si tratta di un muro di cemento e nemmeno di mattoni. Anzitutto devi capire di che cosa è realmente fatto quel muro, così ti renderai conto che ci vuole ben altro che uno scossone.

Poco più di un anno fa scrivevo un post sul ruolo dell’informazione, in particolare su quello degli editori e degli editorialisti, ma anche sulla condizione dei “rematori”, come Sara Mauri, nella stiva delle redazioni. Lo riporto intero salvo l’ultimo paragrafo che riguardava altro.

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Quale grado di autonomia può avere un quotidiano, ossia a chi risponde? Alla proprietà, non c’è dubbio, essendo quella editoriale un’attività economica come un’altra. Stesso discorso vale per i canali televisivi, che, quando sono pubblici, rispondono ai vincitori politici di turno. Che qualsiasi buon giornalista possa sottrarsi ai desiderata espliciti e il più delle volte impliciti del padrone, lasciamolo dire a Dietlinde Gruber e credere a chi vuole essere preso per il culo.

È ben noto che l’informazione incide in modo decisivo nella formazione della cosiddetta opinione pubblica, e dunque questo spiega perché un’attività economica con bilanci perennemente in rosso interessi tanto i capitani coraggiosi dell’imprenditoria e della finanza, ma anche, per fare un esempio di rilievo, la Chiesa cattolica e altri gruppi di potere e di pressione.

L’informazione è un ganglio vitale di questo sistema dominato da “un’oligarchia dinamica incentrata sulle grandi ricchezze ma capace di costruire il consenso e farsi legittimare elettoralmente tenendo sotto controllo i meccanismi elettorali” (Luciano Canfora, La democrazia, p. 331). Non si potrebbe dire meglio di così.

Insomma, che i media siano funzionali alla lotta politica, alla guerra per bande, non è una novità e non potrebbe essere diversamente. Vero è che ci dovrebbero essere dei limiti all’indecenza, alla calunnia, allo sputtanamento, al “mostro” in prima pagina, e la difesa e la rettifica dovrebbero avere lo stesso rilievo dell’accusa. Un argine che non c’è mai stato e che mai ci sarà. La lotta politica e quella economica non conosce zone franche.

A dare lustro alla presunta indipendenza della stampa ci pensano anzitutto le grandi firme, gli editorialisti e gli opinionisti noti al grande pubblico, che i giornali e le televisioni si contendono a colpi di cospicui contratti d’ingaggio, di gettoni di presenza, promozione dei loro libri. La realtà della comunicazione è merce-denaro, per cui ogni scorreggia d'autore diventa l’affare del momento da vendere al pubblico pagante, quello del supermercato, della libreria, delle mostre d’arte, ecc..

Gli editorialisti hanno funzioni di diversione ma anche d’indirizzo: possono scrivere come e quello che vogliono, così s’ingenera l’impressione che nei giornali si possa scrivere come e quello che i giornalisti vogliono. Essi possono, entro limiti che conoscono bene, criticare alcuni aspetti del sistema borghese, presentando nobilmente le loro rimostranze perché chi di dovere s’adoperi con provvedimenti atti a correggere le più vistose disfunzioni e contraddizioni. 

La loro indipendenza recintata dà al giornale l’odore dell’imparzialità, la loro stravaganza offre un tocco di brio e il loro coraggio nel sostenere opinioni impopolari dà l’impronta dell’anticonformismo. Se poi a causa di un editoriale si dovesse perdere un contratto pubblicitario, evento sempre più raro, questo fatto diventa la prova aurea dell’indipendenza del giornale (o della rete televisiva).

Il rovescio della libertà dell’editorialista è la non libertà della redazione. Gli editorialisti non hanno influenza diretta sul restante contenuto del giornale, sono ben pagati e i loro nomi stampati in grassetto. Gli editoriali sono articoli di lusso, gli editorialisti dei divi, capitani nella loro vasca da bagno. Il resto del giornale, la parte cospicua del lavoro, è svolta nelle redazioni, nella stiva dei giornali. Spesso si tratta di un mero lavoro di copia-incolla del “foraggio” che passano le agenzie, redazionali pubblicitari camuffati da articoli specialistici, veline lobbistiche, comunicati stampa governativi fatti di annunci contraddittori e di birichine smentite, di prove tecniche di confusione per sondare le reazioni del popolo sovrano.

Ai lettori, al pubblico, questo flusso di notizie, apparentemente plurale, può dare l’idea di accedere alle fonti e ai fatti. Però se andiamo a vedere i cambiamenti sociali intervenuti in pochi decenni possiamo prendere atto che quanto un tempo consideravamo quasi una mostruosità, oggi passa come lo stato “normale” delle cose. E in tutto ciò l’informazione ha avuto un ruolo non certo marginale nel presentare una certa versione dei fatti e nel citare fonti non proprio disinteressate.

[…].


2 commenti:

  1. Ma uno/a che "ama maledettamente" il mestiere di giornalista non scrive sul "Giormale" o su "Libero", perché quello non è un mestiere. Così come uno/a che è costretto a fare il lavapiatti non scrive che "ama maledettamente" il mestier di chef.

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  2. Penso sia il posto giusto per questo mio piccolo sfogo:

    https://open.substack.com/pub/oposssum/p/lovvio?utm_campaign=post&utm_medium=web

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