In questi giorni leggo di giornalisti freelance
che “amano tanto il loro lavoro” ma che sono destinati ad essere eterni precari
soggetti a vessazioni di ogni genere, anzitutto economiche. Scrive Sara Mauri: “Mancando
la gratificazione economica, ci deve essere come minimo quella personale. Ma se
anche quella manca?”
Qui il primo errore: il lavoro è lavoro e va
pagato. La gratificazione personale è altra cosa.
La colpa è di un sistema malato? Cioè? Una giornalista
nella sua denuncia non dovrebbe rimanere nel vago, anzi nel non detto.
Scrive ancora Sara: “Le cose devono cambiare, così
non si va avanti. Spero di contribuire a tirare giù quel muro di cemento, dando
un altro scossone all’impianto strutturale e viziato di questo mestiere che
maledettamente amo”.
Purtroppo non si tratta di un muro di cemento e
nemmeno di mattoni. Anzitutto devi capire di che cosa è realmente fatto quel
muro, così ti renderai conto che ci vuole ben altro che uno scossone.
Poco più di un anno fa scrivevo un post sul
ruolo dell’informazione, in particolare su quello degli editori e degli
editorialisti, ma anche sulla condizione dei “rematori”, come Sara Mauri, nella
stiva delle redazioni. Lo riporto intero salvo l’ultimo paragrafo che
riguardava altro.
*
Quale grado di autonomia può avere un
quotidiano, ossia a chi risponde? Alla proprietà, non c’è dubbio, essendo
quella editoriale un’attività economica come un’altra. Stesso discorso vale per
i canali televisivi, che, quando sono pubblici, rispondono ai vincitori
politici di turno. Che qualsiasi buon giornalista possa sottrarsi ai desiderata
espliciti e il più delle volte impliciti del padrone, lasciamolo dire a
Dietlinde Gruber e credere a chi vuole essere preso per il culo.
È ben noto che l’informazione incide in modo
decisivo nella formazione della cosiddetta opinione pubblica, e dunque questo spiega
perché un’attività economica con bilanci perennemente in rosso interessi tanto
i capitani coraggiosi dell’imprenditoria e della finanza, ma anche, per fare un
esempio di rilievo, la Chiesa cattolica e altri gruppi di potere e di
pressione.
L’informazione è un ganglio vitale di questo
sistema dominato da “un’oligarchia dinamica incentrata sulle grandi ricchezze
ma capace di costruire il consenso e farsi legittimare elettoralmente tenendo
sotto controllo i meccanismi elettorali” (Luciano Canfora, La democrazia, p. 331). Non si potrebbe
dire meglio di così.
Insomma, che i media siano funzionali alla lotta
politica, alla guerra per bande, non è una novità e non potrebbe essere
diversamente. Vero è che ci dovrebbero essere dei limiti all’indecenza, alla
calunnia, allo sputtanamento, al “mostro” in prima pagina, e la difesa e la
rettifica dovrebbero avere lo stesso rilievo dell’accusa. Un argine che non c’è
mai stato e che mai ci sarà. La lotta politica e quella economica non conosce zone franche.
A dare lustro alla presunta indipendenza della
stampa ci pensano anzitutto le grandi firme, gli editorialisti e gli
opinionisti noti al grande pubblico, che i giornali e le televisioni si
contendono a colpi di cospicui contratti d’ingaggio, di gettoni di presenza,
promozione dei loro libri. La realtà della comunicazione è merce-denaro, per
cui ogni scorreggia d'autore diventa l’affare del momento da vendere al
pubblico pagante, quello del supermercato, della libreria, delle mostre d’arte,
ecc..
Gli editorialisti hanno
funzioni di diversione ma anche d’indirizzo: possono scrivere come e quello che
vogliono, così s’ingenera l’impressione che nei giornali si possa scrivere come
e quello che i giornalisti vogliono. Essi possono, entro limiti che conoscono
bene, criticare alcuni aspetti del sistema borghese, presentando nobilmente le loro
rimostranze perché chi di dovere s’adoperi con provvedimenti atti a correggere
le più vistose disfunzioni e contraddizioni.
La loro indipendenza recintata dà al giornale
l’odore dell’imparzialità, la
loro stravaganza offre un tocco di brio e il loro coraggio nel sostenere
opinioni impopolari dà l’impronta dell’anticonformismo. Se poi a causa di un
editoriale si dovesse perdere un contratto pubblicitario, evento sempre più
raro, questo fatto diventa la prova aurea dell’indipendenza del giornale (o
della rete televisiva).
Il rovescio della libertà dell’editorialista è
la non libertà della redazione. Gli editorialisti non hanno influenza diretta
sul restante contenuto del giornale, sono ben pagati e i loro nomi stampati in
grassetto. Gli editoriali sono articoli di lusso, gli editorialisti dei divi,
capitani nella loro vasca da bagno. Il resto del giornale, la parte cospicua
del lavoro, è svolta nelle redazioni, nella stiva dei giornali. Spesso si tratta
di un mero lavoro di copia-incolla del “foraggio” che passano le agenzie,
redazionali pubblicitari camuffati
da articoli specialistici, veline lobbistiche, comunicati stampa governativi
fatti di annunci contraddittori e di birichine smentite, di prove tecniche di
confusione per sondare le reazioni del popolo sovrano.
Ai lettori, al pubblico, questo flusso di
notizie, apparentemente plurale, può dare l’idea di accedere alle fonti e ai
fatti. Però se andiamo a vedere i cambiamenti sociali intervenuti in pochi
decenni possiamo prendere atto che quanto un tempo consideravamo quasi una
mostruosità, oggi passa come lo stato “normale” delle cose. E in tutto ciò
l’informazione ha avuto un ruolo non certo marginale nel presentare una certa
versione dei fatti e nel citare fonti non proprio disinteressate.
[…].
Ma uno/a che "ama maledettamente" il mestiere di giornalista non scrive sul "Giormale" o su "Libero", perché quello non è un mestiere. Così come uno/a che è costretto a fare il lavapiatti non scrive che "ama maledettamente" il mestier di chef.
RispondiEliminaPenso sia il posto giusto per questo mio piccolo sfogo:
RispondiEliminahttps://open.substack.com/pub/oposssum/p/lovvio?utm_campaign=post&utm_medium=web